Madri e nonne per scelta

Non inganni il lettore la semplicità (soltanto apparente) dello sviluppo narrativo  (la storia di una nonna che segue, sfidando la distanza oceanica, i primi tre anni di vita della propria nipotina).

“Tempo con bambina”, infatti,  affronta temi profondi dell’esistenza: il primo, fondamentale, è che l’essere genitori, nonni, zii, non è la conseguenza di un fatto biologico. Si può essere genitori anche accogliendo dal mondo i figli, invece di donarli al mondo.  Come ha fatto Lidia Ravera, dopo la morte della sorella Mara che, gravemente ammalata, le ha affidato Maddalena,  la figlia non ancora adolescente.

Grazie a questa maternità, oggi Lidia Ravera è nonna di Mara (Mara piccola) – per distinguerla dalla sorella (Mara Grande) – la bambina  cui la narratrice è riuscita a dedicare parte del proprio tempo, sfidando quelli che nel libro definisce “pensieri da vecchia” (la difficoltà di raggiungere gli Stati Uniti sobbarcandosi lunghe ore di volo, ad esempio) nella ferma convinzione che la comunicazione a distanza, possibile grazie a Skype o Face Time, non possa sostituire la presenza fisica il cui valore non è equiparabile.

È questo un altro tema fondamentale del libro, tema legato al nostro tempo che a molti (fortunatamente non a tutti) regala l’illusione che la comunicazione in tempo reale, superando le distanze, possa sostituirsi al rapporto  fisico:                                      

  “Non costa niente.

Non costa, ma quanto vale?

Vale quanto la presenza?”

Il libro, comunque, ruota intorno all’essere nonna, soprattutto per una donna (qual è l’autrice) con un passato da femminista e che, in quanto tale, aveva escluso la possibilità della maternità, comunque abbracciata con consapevolezza e amore all’arrivo del proprio figlio naturale. Un ruolo, quello della nonna,  che non impone una funzione educativa rigorosa e severa, essendo questa riservata ai genitori, e che, conseguentemente, permettere di agire in maniera accattivante, mostrando soltanto la parte più piacevole di sé.

Che nonna è Lidia Ravera? Certamente, una nonna diversa da quelle del passato, chiamate a sostituire i genitori impegnati nel lavoro, che definisce madri “dal ventre appassito e dall’illimitata generosità affettiva”. Delle nonne di oggi scrive:

“Siamo nonne entusiaste, ma siamo sempre noi.

Quelle che non volevano essere madri e basta.

Quelle che non vogliono essere nonne e basta.

Noi. Una generazione di inquiete, invecchiate sì, riconciliate mai”.

Nonne tra i sessanta e i settanta, ma che continuano ad avere una vita professionale, nel caso della Ravera ricca di impegni. Nonne che non riempiono vuoti, ma sanno condividere le prime esperienze di vita dei nipoti, sebbene per pochi mesi all’anno.

Con Lidia Ravera durante l’incontro a Ragusa per la presentazione del suo libro per l’edizione 2020 di “A tutto Volume”
(credit foto ©️ A Tutto Volume)

“Tempo con bambina” si presenta come un lungo racconto a Mara Grande per renderla partecipe dei primi anni di vita della nipotina, ma anche per condividere le trasformazioni di un Paese che la morte prematura non le ha permesso di conoscere. Un Paese che dal ’93 (anno in cui è mancata la sorella dell’autrice) non è migliorato:

“perché l’Italia è diventata un paese piuttosto estivo.

Dal clima mite e dalle molte bellezze.

Un paese lento, festivo, divagante.

Infatti sono ducentocinquantamila all’anno i giovani intraprendenti

che se ne vanno all’estero,

per non rischiare una eterna coatta vacanza”.

Tra i giovani che hanno lasciato l’Italia per affermarsi all’estero c’è anche Maddalena la nipote/figlia di Lidia Ravera che ha raccontato la genesi del libro ai lettori ragusani (numerosi e attenti) durante gli incontri di “A tutto volume”.

credit foto ©️ A Tutto Volume

Conoscere per apprendere e comprendere

I libri (certi libri) sono come le persone (alcune persone, fortunatamente, non tutte):  si presentano carichi di promesse, lasciano intravedere importanti prospettive future, ma alla fine lasciano una sottile scia di delusione.

 È il caso di “Città sommersa” – proposto per concorrere all’ultima edizione del  Premio Strega – che affronta gli anni difficili di lotta politica, inseguendo il sogno socialista, culminata nel terrorismo.

La ricostruzione di quegli anni è affidata alla protagonista, giovane donna non ancora trentenne, lettrice di romanzi per una casa editrice, che sogna di diventare scrittrice, ma deve fare i conti con un blocco che non riesce a superare. Fino a quando, dopo la morte del padre,   davanti a domande rimaste senza risposta sulla vita di  un genitore, scopriremo, misconosciuto, avverte l’esigenza di sapere perché “a un certo punto i morti tornano a cercarti, e ti devi sedere al tavolo con loro”.

Marta si ritrova tra le mani un documento relativo ad un processo subito dal padre Leonardo come presunto affiliato a Prima Linea, evento che ne ha cambiato la  vita, la vita di un giovane uomo militante che l’autrice non ha mai conosciuto,  di  cui ignora il passato. Spinta quindi dal bisogno di apprendere (e comprendere)  si lancia alla ricerca di documenti e testimonianze,  contattando le persone che con lui hanno condiviso un percorso umano e politico in cui il sogno utopico di una società senza sfruttatori né sfruttati veniva strumentalizzato dai capi di un’organizzazione che dalle pagine della Barone appare spietata e opportunista.

Marta scopre così che il padre Leonardo aveva sacrificato la propria giovinezza per “servire il popolo”, aderendo ad un movimento che, però, finiva per stritolare i propri adepti:

“Annullarsi, cancellare la propria identità era un passo quasi obbligato:

non si potevano avere sensazioni proprie, come predicavano gli opuscoli,

o si sarebbe perso di vista il fine buono, il fine vero,

il vago ideale di felicità per tutti i viventi

che avrebbero obliterato i mali del mondo”.

Il romanzo permette di conoscere la disillusione di molti giovani militanti le cui scelte anche personali sono state imposte dai vertici del Pcim, partito di estrema sinistra. In particolare, per    Leonardo Barone  il disinganno  diventa insopportabile  dopo l’arresto e l’isolamento subito da parte di coloro  che aveva considerato compagni di strada. Al  punto che arriva a dichiarare di avere sbagliato tutto e di avere sprecato la propria vita. Una amarezza che Marta scopre troppo tardi, quando è oramai impossibile rimediare ai silenzi e alle incomprensioni che hanno caratterizzato il suo rapporto col padre.

Senza dubbio “Città  sommersa” ha il merito di approfondire una delle pagine più tormentate dalla storia dell’Italia degli Anni Settanta, offrendo al lettore, soprattutto se, per ragioni anagrafiche, non ha vissuto quegli anni con consapevolezza, diversi spunti di riflessione.

Tuttavia, la narrazione mostra delle falle nell’uso della lingua che, a tratti, appare ambiziosa: accade quando la Barone, che generalmente utilizza un linguaggio medio, lascia scivolare  vocaboli eccessivamente ricercati e aulici, fuori contesto con la scrittura complessiva. Un esempio per tutti: “fatagione” che troviamo nel terzo capitolo a cui, dopo poche righe, fa seguito “che leggiucchiai in modo disordinato nei mesi dopo”. (Successivi, forse avrebbe giustificato l’eleganza di  fatagione, che starebbe per incantesimo o magia) Ambizioso appare, poi, il richiamato allo “smaliziato lettore” il quale (proprio perché smaliziato) non può non sentire un’eco manzoniana. Si avverte , dunque, da parte dell’autrice una certa ansia di prestazione che, a nostro modesto avviso, non serve al romanzo.

La forza e il coraggio di una donna siciliana

Sotto lo sguardo indifferente dell’Etna (a muntagna)   il vicequestore Vanina Guarrasi indaga su un omicidio che assume i colori di un giallo internazionale.

Tutto ha inizio un mattino d’inverno, sorprendentemente freddo per una milanese che, atterrata a Catania per lavoro, si imbatte   in un’auto parcheggiata male e  sulla quale scopre il cadavere di un uomo. Lella Cantone, portatrice sana di luoghi comuni e pregiudizi sulla Sicilia e sui siciliani, non ha dubbi che si tratti di un delitto mafioso, ma dovrà fare i conti con il vicequestore Guarrasi, rientrata da Palermo e pronta a tuffarsi in un’indagine che riserverà non poche sorprese.

Seguendo uno schema già collaudato nei due precedenti polizieschi, il vicequestore si muoverà con la determinazione e la spregiudicatezza che la caratterizzano, dibattendosi tra Catania, Taormina (dove il ritrovamento del cadavere di una donna svelerà risvolti interessanti) rapporti d’amicizia e d’amore, con la collaborazione del vecchio commissionario Patanè, da anni in pensione, ma partner ad honorem di Vanina che suscita l’irosa gelosia della moglie.

Poiché si tratta di un poliziesco, non dirò più nulla sulla trama che  è sacrosanto diritto del lettore scoprire da una pagina all’altra. Sappiate però, almeno quanti non vi siete ancora imbattuti nei romanzi di Cristina Cassar Scalia, che anche “La logica della lampara” si distingue per i numerosi personaggi cui l’autrice ha dato vita con grande abilità, molti divenuti familiari, in quanto presenze costanti  già nei due precedenti polizieschi: “La logica della lampara” e “Sabbia nera”. Tra tutti, naturalmente, emerge Vanina Guarrasi donna dalle straordinarie doti investigative, amante della cucina (nonostante i chili che si accumulano con l’età) appassionata cinefila, amica sincera e generosa, mai in competizione con le altre donne (molte bellissime) che la circondano. Una donna dalla vita tormentata, segnata da un dolore con cui continua a fare i conti e che non la rende libera di amare, causa di paure e angosce che la tormentano, che la spingono lontano da Palermo (sua città natale dove tutto è cominciato) ma, allo stesso tempo, ve  la attraggono.

 “Odi et amo”, come avrebbe detto Catullo, “odio e amo …  e mi sento messo in croce”. Anche Vanina Guarrasi porta la propria croce, senza lamentarsene, con  la determinazione e la forza che solo una donna (e in particolare, viste le circostanze, una donna siciliana) può avere.