Conta amare non essere amati

Lo sapevate che il battito del cuore ha tanti suoni quanti sono le lingue del mondo? In basco è bun-bun-bun, ma si trasforma in panp-pnap, se batte nervosamente.  In Giappone, dove si svolge la storia al centro del romanzo, un cuore emozionato fa doki doki, ma se è calmo diventa toku toku. In Italia è tu tump. Si potrebbe continuare ancora, ma già questo può bastare per individuare il senso della lunga elencazione  che Laura Imai Messina affida al protagonista: tutti abbiamo un cuore, ma ciascuno lo sente  in maniera diversa.

Shūichi è,  autore   di libri per bambini, che disegna e scrive, decide, dopo la morte della madre di lasciare Tokio per trasferirsi nella casa della propria infanzia a Kamakura alla ricerca del sé che sente perduto. Per anni, ha cercato conferme sui ricordi più brutti della propria infanzia, con decisione negati dalla madre e attribuiti al suo estro narrativo, presente fin  dalla fanciullezza. Shūichi  ha finito con l’arrendersi alle  bugie inventate dalla madre per proteggerlo dal dolore, perché convinta che per essere felici bisogna immaginare la felicità.

Purtroppo, però, l’amore di una madre non può essere sufficiente contro i dolori della vita, soprattutto quelli vissuti da adulti. Lo sa bene Shūichi  costretto a fare i conti con la memoria del suo passato, lontano e recente, che non gli ha risparmiato sofferenze non solo fisiche.    Il ritorno a Kamakura segnerà per Shūichi un nuovo lento inizio, assai diverso da quello che aveva immaginato, grazie a Kenta, un bambino di appena otto anni che gli svelerà molto di sua madre. Ma non solo.

Avrà modo di conoscere Sayaka, incontrata molte volte e subito dimentica, saggia e delicata,capace di mostrare a Shūichi le verità che non riesce a vedere, a condurlo lungo la strada della consapevolezza che il proprio cuore può battere all’unisono con quello di un altro, come in una sinfonia. Fino alla scoperta fatta su “L’isola dei battiti del cuore” dove riuscirà a venire a capo di un piccolo mistero, quasi dimenticato.

Questo  di Laura Imai Messina è un romanzo che si legge d’un fiato: la narrazione procede con la levità di una fiaba, ma riesce a scavare dentro l’animo umano, a cercare significati, a comprendere ciò che rimane del nostro passaggio sulla terra.  Particolarmente interessanti, poi, si rivelano le spiegazioni di alcuni ideogrammi la cui complessità grafica è il risultato di significati profondi che ciascuna parola porta con sé.

Un inetto che si erge a divinità

“La vita non appare priva di significato, semmai ne è così ricca che il suo significato deve essere costantemente ucciso per il bene della coesione e della comprensione”.

Ci sono romanzi che si limitano a raccontare vite, più o meno reali. Poi ci sono romanzi che raccontano la Vita, anche quando i protagonisti appaiono lontani, non solo geograficamente, dal lettore.   È il caso di “Karoo” il romanzo postumo di Steve Tesich (mancato nel 1996), pubblicato negli Stati Uniti nel ’98 e  in Italia da Adelphi soltanto nel 2014.

Steve Tesich, serbo naturalizzato statunitense,   sceneggiatore, premiato con l’Oscar, drammaturgo e scrittore, ci regala un personaggio disturbante,  a tratti sgradevole e odioso, ma fortemente umano. Saul Karoo, disgustosamente ricco, grazie alla propria abilità di “scribacchino”, è consapevole di non essere un artista. Da tempo ha messo da parte il sogno di scrivere un proprio romanzo,  tuttavia a Hollywood   è lo “scriptor doctor” più ricercato e retribuito,  perché riesce a trasformare un film (anche di grande valore artistico) in una pellicola da botteghino.

Saul è consapevole dei proprie manchevolezze e dei propri limiti , sia professionali che personali, ma come un inetto si lascia vivere, preferendo la continuità di un’esistenza, comunque triste e deludente, piuttosto che rimediare agli errori ben noti. Fino a quando non accade qualcosa che lo spinge a diventare artefice del proprio destino, ma che lo rende (novello Ulisse) colpevole di Hybris, perché non è possibile decidere  per gli altri. Anche quando si tratta delle persone amate e si vuole agire per la loro felicità.

 Con leggerezza, solo apparente, però, e ironia  per mezzo di  “Karoo” Steve Tesich ci racconta la vita con il suo carico di illusioni, delusioni, sogni irrealizzati, errori, vigliaccherie, egoismi (l’elenco potrebbe proseguire, ancora, ma non voglio togliere al lettore il piacere della scoperta, né risultare tediosa). 

Fino alla tragedia che l’autore abilmente lascia intravvedere nel corso della narrazione, insinuando un sospetto che il lettore vorrebbe scoprire infondato e che condurrà anche ad altro, ad un dolore che non concede vie di fuga né riscatto.

L’amore che non basta

Anna, oramai anziana, un giorno non ha fatto più ritorno a casa dove il marito, Severino, l’ha attesa, giorno dopo giorno. Fino a quando, un anno dopo, in un grigia alba invernale, trascinando una vecchia valigia, Severino parte dal porticciolo di Stromboli (dove si erano trasferiti dopo la pensione) per     ritrovare  e riportare a casa la donna della sua vita, perché questo è stata Anna per Severino.  

Per un intero anno, Severino si è preparato al viaggio, con dedizione e rigore, passeggiando nell’isola per preparare un corpo stanco e malato al lungo pellegrinaggio lungo la Sicilia orientale, in una sorta di via crucis, di città in città, tra i luoghi vissuti e, apparentemente, solo apparentemente, condivisi: Librizzi, Siracusa, Oliveri…  Nelle città abitate e sofferte, incontrando gli amici della giovinezza, riannodando i fili di una vita, rievocando brevi attimi di gioia e dolori profondi,  Severino scoprirà una verità che negli anni gli era sfuggita, ma che, molto probabilmente, non aveva saputo leggere.

Accompagnando Severino, il lettore incontrerà, senza maschere né finzioni,  Anna, seguendola dagli anni della fanciullezza alla maturità. Il viaggio di Severino è dunque il pretesto per  ricostruire la storia di Anna, attraverso un alternarsi di voci e intrecci,  felicemente costruiti dall’autore, un esordiente che promette di regalarci altre opere di grande valore narrativo. Mentre Severino si muove nel presente della ricerca, riconquistando e rileggendo il tempo vissuto, vediamo Anna vivere una vita che non ha scelto, vittima della volontà altrui, accettata per non fare soffrire chi le vuole bene.

   “Le mamme a volte sono egoiste.

Non lo fanno apposta, Dio le mette al mondo per proteggere i figli

e quando è ora non sanno come si fa a lasciarli andare”. 

È  la riflessione che Severino regala ad una giovane donna incontrata all’inizio del viaggio, una riflessione che, come accade a chi ha tanto vissuto, è frutto dell’esperienza di una vita, del dolore sperimentato nella propria vita  o in quella di altri. Nel caso specifico nella vita di Anna, costretta a soffocare il desiderio di vivere come una donna libera e seguire la volontà della madre per la quale:

“Na fimmina nasce per essere mugghìeri di un uomo e mamma d’un figghiu”.

Così Anna, dopo avere provato a sottrarsi,  è stata moglie, cedendo all’amore di Severino; ha cercato disperatamente la maternità e quando ha messo al mondo (facendosi beffa della medicina che la voleva sterile) il proprio figlio avrebbe voluto legarlo a sé, condizionandone l’esistenza, decidendo per lui, pur sapendo che “Il bene di una mamma è pericoloso, può essere acqua e zucchero, ma pure veleno”.

Matteo Corrente, pagina dopo pagina, con profondità e pietas ci regala il ritratto di una donna che non ha saputo ribellarsi, probabilmente, come dice Severino, per mancanza di coraggio. Una donna, comunque, che non può essere giudicata, ma che suscita nel lettore sentimenti di compassione  (inteso nel significato più alto, “patire con”) empatia e solidarietà.

Quando i soldi non danno la felicità

Arriva  sempre nella vita di ciascuno il momento in cui bisogna abbandonare la gentilezza e tirare fuori la fermezza, mostrarsi duri e determinati, nonostante la propria indole. Si tratta, in molti casi, di un passaggio obbligato lungo la strada che dalla fanciullezza conduce alla maturità; un percorso non semplice, costellato da insidie che bisogna imparare a riconoscere ed evitare.

Così è per Gilles Mauvoisin, il “viaggiatore del giorno dei morti”, sbarcato a Rochelle, cittadina costiera del Nord del Francia, sull’Oceano Atlantico. Giunto  come clandestino da un cargo proveniente dalla Norvegia, Gilles  non sa che la sua vita cambierà radicalmente: del tutto fuori contesto, avvolto in un lungo cappotto nero, in testa un cappello di pelliccia, vagherà per le strade della città alla ricerca delle proprie radici: prematuramente orfano di entrambi  i genitori, ha raggiunto la Francia nel tentativo di rintracciare i parenti conosciuti soltanto dai racconti ascoltati nella fanciullezza. Ben presto, scoprirà di essere l’erede di una enorme eredità: una fortuna insperata, lasciatogli dallo zio Octave Mauvoisin, fratello del padre, ma appesantita da segreti che rischiano di imprigionarlo e schiacciarlo.

L’eredità di Octave Mauvoisin lo stava distruggendo.

Aveva paura di andare a fondo,

e non faceva nulla per evitarlo,

come fosse ineluttabile.

Parte dell’eredità ricevuta è la chiave di una cassaforte che potrà essere aperta soltanto individuando la combinazione,  una parola da scoprire per riuscire a fare luce sugli oscuri rapporti che legavano lo zio al sindacato. Una ricerca tutt’altro che semplice, causa di inquietudine per il protagonista, ma anche per il lettore di Simenon, narratore lontano dalle tortuosità acrobatiche di certa letteratura, ma capace di condurci tra le stradine fosche di Rochelle, legandoci empaticamente al protagonista.

Fino  alla conclusione: felice? Da elogiare o biasimare? Dipende dai punti di vista.

Conoscere per Essere: la Filosofia

“La filosofia è un inarrestabile viaggio di crescita individuale e collettivo, al termine del quale potrebbe sorgere in noi il desiderio di diventare artefici del nostro destino” (pag. 22)

Primum esse, deinde philosophari. Il vecchio adagio latino dovrebbe diventare la stella polare della nostra epoca in cui molti sedicenti maestri, complici anche i social network che danno a chiunque la possibilità di esprimersi su tutto, si ergono a lettori critici, pronti a philosophari, manifestando, però, il vuoto umano e culturale di cui sono portatori. Per essere filosofi, però,  bisogna prima essere e per essere è necessario conoscere, abbracciare un Sapere che non è mai finito, che è sempre rimesso in discussione, secondo l’insegnamento di Socrate: so di non sapere. Unica certezza data all’uomo saggio che ricerca la verità. Una certezza che, oggi più che mai, epoca di sofisti del nulla, come dicevamo, sarebbe veramente rivoluzionaria e porterebbe alla Filosofia, intesa come conoscenza e studio, secondo l’insegnamento degli antichi filosofi che furono astronomi, filosofi, matematici, geografi…  ricercatori e portatori di conoscenza e per questo temuti dal potere che li perseguitarono e ne decretarono la morte. Come Ipazia, Anassimandro, Epicuro, Olympe de Gouges, Marx  alcuni dei filosofi di cui il prof. Saudino ricostruisce la vicenda umana e il pensiero nel suo volume di indubbio successo, considerate il numero di edizioni già date alle stampa.

Il Prof. Saudino a Ragusa lo scorso giugno,
durante l’interessante e partecipata conversazione sul suo libro
che ho avuto il privilegio di presentare.

Il successo del Prof. Saudino e, naturalmente, della Filosofia potrebbe sembrare una contraddizione visto che , secondo il detto popolare che l’autore ha ben presente, la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale. Parole che sembrano perfette per una  società super tecnologica, nella quale sembrano prevalere le scienze applicate, dove bisogna produrre, dove le multinazionali promuovono progetti finalizzati a distruggere la scuola del sapere nel nome di una scuola di competenze che in maniera altisonante sembrano talora orientati a distruggere la Conoscenza che rende liberi e sviluppa il Libero Pensiero (oltre alle competenze!).

 Sostenere che la filosofia non serve a nulla è, da parte del Prof. Saudino, ma anche della vostra lettrice,    una provocazione perché tutti noi siamo coscienti del fatto che la Filosofia oltre ad essere  “ il sapere più nobile”, – come già aveva detto Aristotele –  rende veramente liberi in quanto (sono queste le meraviglie che ci vengono rivelate nella prima parte del libro) serve a creare problemi, a fondare scelte, immaginare altre realtà, criticare il potere, prepararsi a morire, interrogarsi sulla vita. Insomma, ci rende Uomini e ci distingue dai bruti, perché solo l’Essere Umano, per quanto sappiamo ad oggi, è capace di interrogarsi, conoscere, avere consapevolezza di sé e del mondo.

Viaggiatori anomali in territori mistici

Un atto d’amore per il cantautore che ha scritto la colonna sonora delle nostre vite

Ci sono incontri destinati a lasciare un segno indelebile nelle nostre vite. Avviene quando le nostre strade incrociano quelle di uomini che hanno tanto da dire e riescono a comunicarlo con la loro arte. Come la musica.

Franco Battiato ha rappresentato tutto ciò per il protagonista del romanzo, Federico Falco, cronista del settimanale Il Guiscardo,  che da Lecce vola in  Sicilia (con la  quale ha forti legami, grazie a nonno ‘Nzino di Scicli), alle pendici dell’Etna, per scrivere un articolo  sulla scomparsa dell’artista, lontano dalle scene da circa due anni. L’indagine, perché questo è, impegnerà Federico per giorni e, apparentemente, solo apparentemente, non porterà all’esito sperato. O meglio, non ci sarà l’esito sperato dal lettore. Perché  Federico, indagando, sarà costretto a scavare anche dentro di sé, a fare i conti con la propria vita, ma soprattutto con l’adolescente che è stato. Sarà, infatti,  costretto a risalire al tempo del suo primo incontro con il cantautore, quando questi non era ancora il Maestro, autore della colonna sonora che ha accompagnato le nostre vite. Non solo quella di Federico.

Il romanzo – un giallo sentimentale, se mi è concessa questa classificazione – si distingue per la scrittura elegante, ironica e colta; per i personaggi che, chi più chi meno,  accompagnano Federico, aiutandolo a far luce su un mistero che, magari, potrebbe non essere tale: Melina, l’avvenente barista, seducente e materna, capace di  coccolare, ma anche di redarguire, mentore e aiutante; suor Edith che cerca la presenza di  Dio “nell’eleganza di ogni stelo di ginestra, nel profumo delle cortecce d’albero, dentro la buccia perfetta di ogni ghianda” (pag. 84), ma che è anche capace di leggere in profondità i testi di Battiato, superando i luoghi comuni di molte interpretazioni; l’anziano sarto che lascia la propria bottega per concedersi una pausa caffè e racconta a Federico di quando ha cucito il gilet che Battiato ha indossato per il suo ultimo concerto.

È, però, Costanza, giovane astrofisica dell’osservatorio di Catania, il  personaggio destinato a scompigliare le (poche, a dire il vero) certezze di Federico,al cui passato è sorprendentemente legata; a spingerlo  a superare inibizioni e paure, a sorprenderlo con scelte decisive.

Nel racconto il co-protagonista è proprio Franco Battiato la cui assenza si fa presenza con le sue canzoni, attraverso le quali il Maestro ha conquistato l’immortalità, senza tempo né spazio. Come dice nei suoi versi che raccontano  dell’esistenza di mondi lontanissimi e che ci hanno regalato il sogno di avanguardie di un altro sistema solare.

Il Potere Taumaturgico della scrittura

Premio Campiello 2022

L’autore, appena venticinquenne, fa il suo ingresso nel mondo letterario con un romanzo che, come nelle favole della tradizione, ha come protagonisti gli animali, con i vizi, le virtù, i sentimenti degli uomini. Disperati e speranzosi;  appassionati e crudeli;  devastati dalla vita, ma capaci di guardare oltre e reinventarsi;  sognatori e realisti proprio come gli uomini. I personaggi di questa storia sono faine, cani, maiali, tassi, ricci, volpi che allegoricamente ci rappresentano e ci dicono cosa siamo e cosa possiamo essere.

L’io narrante e protagonista è una faina, Archy:  il padre è stato assassinato da un umano che lo ha sorpreso a rubare, lasciando la moglie e i figli nella disperazione di un inverno che rende difficile, se non impossibile, cacciare. Il bisogno lascia poco spazio all’amore materno e agli affetti familiari, consumati dalla necessità di sfamare la nidiata, trascurando, chi particolarmente debole, sembra avere poche possibilità di sopravvivenza.

Così, quando, Archy, cadendo da un albero nel tentativo di portare a casa delle uova di uccello, rimarrà zoppo, sarà ceduto dalla mamma  alla  vecchia volpe usuraio. Ha inizio per Archy la sua nuova vita, il primo di tanti cambiamenti che caratterizzeranno la sua esistenza:

“La vecchia volpe decise di insegnarmi tutto quello che sapeva”.

In poco tempo, nonostante i maltrattamenti, Archy diventa l’apprendista della volpe che, intuendo di essere oramai alla fine della propria vita, desidera un erede a cui lasciare i beni accumulati in anni di usura violenta. In particolare, però, la volpe insegna ad Archy a  scrivere, a leggere ed interpretare un libro, il Libro, una bibbia rubata negli anni della giovinezza.

Alla lettura della bibbia la volpe ha dedicato parte della propria vita, convincendosi  di essere “un figlio di Dio” e decidendo di raccontare la propria esperienza, una vita di rapina e violenza con cui fare i conti, prima di superare la soglia dell’esistenza per andare verso un oltre di cui non si ha consapevolezza.

Il romanzo, così, supera i confini della favola, per diventare un libro sulla scrittura, su questa capacità, tutta umana, che ci rende  “figli di Dio”, regalandoci l’eternità, come dice Archy:

“mi fece riflettere sul potere della scrittura, quanto fosse immune al tempo”.

Per cui, oramai, vecchio, stanco e solo, disperatamente solo, Archy decide “che l’unico compromesso prima di sparire era raccontarmi”, fino a scoprire  il potere taumaturgico della scrittura:

“Più scrivo, più l’ossessione della morte si fa leggera.

La sconfiggo ad ogni pagina, specchiandomi nel colore, nelle linee che traccio.

Dio porterà la mia anima chissà dove, disperderà il mio corpo nella terra,

ma i miei pensieri rimarranno qui, senza età, salvi dai giorni e dalle notti”.

Affiderà il suo racconto autobiografico, insieme con la bibbia avuta in dono dalla volpe, al suo ultimo amico, Klaus, come un tesoro prezioso, da tenere sempre con sé:

“Ti diranno tante verità, ti faranno male,

ma non potranno mai ingannarti su quello che sei,

su quello che siamo”.

Non si sfugge dai fantasmi, quando si evocano

“Ci sono momenti della vita in cui si cresce e si invecchia in poco tempo. Accade nel dolore, certo, accade anche nello smarrimento, nel fatto che prima il mondo ha la terra e il cielo e poi il mondo ha l’inferno, la terra e il cielo”.

Così Margherita, protagonista e voce narrante del romanzo, riflette sulla storia che, nella finzione letteraria, ha iniziato a narrare, come un diario di eventi oramai lontani, ma che hanno segnato la sua esistenza, spingendola lontano dall’Italia, fino in Australia, nella consapevolezza, tuttavia, che “Non c’è più il tempo per ricominciare a vivere”.

Non potendo più “ricominciare a vivere”, Margherita viene sollecitata a scrivere  per raccontare quello che definisce un incantesimo che la tenne prigioniera spingendola a compiere azioni irreparabili, per riuscire a fuggire e conquistare (solo apparentemente, tuttavia) la libertà. Il diario di Margherita, come apprenderemo,  ha una finalità terapeutica (nella narrativa italiana, questa non è certamente una novità), ma il lettore non saprà mai se l’esito sarà positivo. Come non saprà (il lettore) cosa sia realmente accaduto nella casa di vetro, da cui era possibile vedere la cupola di San Pietro, che Margherita aveva definito una Camelot, luogo incantato, di leggende fiabesche, insomma, ma che ben presto si rivelerà un finis terrae, un hortus conclusus in cui niente è come appare.

Margherita viene accolta nella casa di vetro (una villa senza pareti di cemento, appunto, attribuita al  celebre architetto contemporaneo Rem Koolhaas) come istitutitrice di Lucrezia e Lavinia, due gemelle deliziose e talentuose, alle quali dovrà insegnare le lingue straniere e seguire nello studio del pianoforte e nello sport. Le due gemelle, però, riveleranno ben presto una forza soprannaturale, capace di determinare gli eventi e richiamare fantasmi inquietanti dai quali Margherita dovrà fuggire.

“Loro” si presenta come un romanzo gotico, nel solco della tradizione letteraria del genere, ma, come lo stesso autore ha avuto modo di affermare, è anche altro. Può infatti essere letto come un romanzo di fantasmi, come un romanzo sul bene e il male, sull’essere e apparire, su ciò che è reale e ciò che è immaginato. Insomma, “Loro” è un romanzo che sfugge ad ogni definizione,  che inquieta, ma nello stesso tempo rasserena, perché spinge il lettore a fare i conti con se stesso e la propria coscienza. Perché, come scrive Cotroneo:

“I fantasmi si evocano perché ci obbediscono, e non il contrario”.

Oltre la realtà

“Semplicemente era come se mi mancasse metà del corpo, metà della vita, forse tutta. Ho finito per vivere la vita di un altro uomo, non la mia. Non ero più io. Eppure mi riusciva benissimo di fingere, con tutti”.

Alzi la mano tra le mie  lettrici (molto meno numerose, certamente, dei venticinque lettori di manzoniana memoria) chi non vorrebbe ascoltare queste parole dal proprio uomo.

 Faccia lo stesso chi tra i miei lettori  non desiderasse, a propria volta,certamente dopo avere apportato  qualche aggiustamento lessicale, sentirle pronunciare dalla donna che ama.

In “L’ultima estate” queste parole non sono una semplice (se mai possa definirsi tale) dichiarazione d’amore. Sono la rivelazione di una condizione che sfugge  il reale e conduce ad una dimensione che va oltre i limiti della conoscenza razionale cui  guardare con scetticismo, se non si trattasse di un romanzo.  Invece, per quel patto implicito e silente che ci lega a un autore, dopo averne scelto il libro,   fingiamo di credere a Raùl, protagonista dell’ultimo romanzo di André Aciman, ambientato sulla costiera amalfitana in una dimensione che appare, nonostante tutto, fuori dalla spazio e dal tempo.

Ospite di un elegante hotel, Raùl si avvicina ad una comitiva di giovani americani che, nei giorni precedenti, lo avevano osservato con curiosità e qualche perplessità, colpiti dalla sua riservatezza, al punto di identificarlo come un “killer di professione che vive del suo pingue conto in banca svizzero”.

Fino a quando, un giorno apparentemente come tutti gli altri, Raùl si avvicina ai giovani e, con la semplice imposizione delle mani, guarisce Mark dal dolore alla spalla, causato da una partita a tennis. Inizia così un rapporto che porterà Raùl a rivelare ai giovani episodi della loro vita che loro stessi ignoravano: Oscar è sopravvissuto al proprio  gemello che ha divorato nel grembo materno. Mentre Margot (la più scettica del gruppo nei confronti dei poteri di Raùl) scoprirà di essere stata  un’altra donna e di avere già conosciuto Raùl. Dove e quando lo lasciamo scoprire al lettore a cui riveliamo solo che “L’ultima estate” è un romanzo che ruota intorno all’amore. Agli amori perduti e ritrovati. A patto, però, che si abbia  la capacità di riconoscersi, di non abbandonarsi alla convinzione, espressa sempre da Raùl, che “Ognuno di noi è condannato alla solitudine”.

La profondità della leggerezza

La notte dell’ultimo dell’anno, Martin,  Maureen, Jesse e JJ, quattro sconosciuti apparentemente senza alcun  legame, si ritrovano, insieme loro malgrado, sul tetto di una casa di Londra, tristemente nota come “la Casa dei Suicidi”. Vi sono giunti da strade diverse, con diverse motivazioni, ma con un’unica intenzione: farla finita, lanciandosi nel vuoto.

Martin, conduttore di un talk televisivo, dopo essere stato  coinvolto in uno scandalo per avere avuto una relazione con una minorenne,  è stato lasciato dalla moglie, non può  più vedere le figlie, ha trascorso un lungo periodo in carcere ed ha perso il lavoro.

Maureen è una donna di mezza età, religiosissima, oramai sciupata e sciatta, che si è ritrovata, dopo un’unica notte d’amore con un uomo che l’ha lasciata, con un figlio tetraplegico a cui dedica tutto il suo tempo, tra mille difficoltà e sensi di colpa.

Jess, un’adolescente priva di regole,aggressiva, sboccata, superficiale e incolta,  è stata lasciata dal fidanzato proprio (come scopriremo presto) perché fuori di testa.

Infine, JJ arrivato a Londra dagli Stati Uniti, inseguendo il sogno del rock insieme ad una band che si è sciolta. È rimasto solo, senza più gli amici che sono ritornati in America né la fidanzata che lo ha lasciato.

Una situazione surreale che, nella drammaticità della situazione, viene narrata con leggera ironia da Nick Hornby,  autore inglese di successo, abile artefice di situazioni, narrate con realismo,  con uso efficace e pluralistico  della lingua  (tra l’altro, abilmente reso  nella versione italiana dal traduttore).

Il paradosso della situazione prosegue con la decisione dei quattro aspiranti suicidi di scendere insieme dal tetto del palazzo (lascio al lettore la scoperta dell’esilarante intervento di Martin per vincere l’ostinazione di Jess che non intende tornare sui propri passi) per andare alla ricerca di Chas l’oramai ex fidanzato di Jess.

I quattro  rimarranno insieme fino al  nuovo giorno e sigleranno un patto che li porterà a condividere giorni ed esperienze, ma soprattutto a scoprirsi complici e solidali, pronti  a sostenersi nella consapevolezza che, dopotutto e nonostante tutto, è sempre possibile trovare delle ragioni che diano un senso alla vita.

Così, prima dello scadere del termine dei novanta giorni (il tempo che si erano dati per ritrovarsi nuovamente sul tetto della Casa dei Suicidi)  i quattro aspiranti  suicidi si rendono conto che  alcune

“situazioni erano cambiate.

Non erano cambiate tanto in fretta, e neanche in modo radicale,

e forse non avevamo neanche fatto molto perché cambiassero”

Di fatto, il lettore scoprirà che a cambiare saranno Martin, Maureen, Jess e JJ perché hanno imparato a guardare  la vita con occhi nuovi, anche quando questa sembra schiacciarci con il peso dei fallimenti, delle delusioni, degli obblighi e delle maschere che abbiamo scelto di indossare. Temi, senza dubbio profondi che (il lettore scoprirà anche questo)  è possibile narrare  la profondità della vita con leggerezza ed ironia.