“Ci sono momenti della vita in cui si cresce e si invecchia in poco tempo. Accade nel dolore, certo, accade anche nello smarrimento, nel fatto che prima il mondo ha la terra e il cielo e poi il mondo ha l’inferno, la terra e il cielo”.
Così Margherita, protagonista e voce narrante del romanzo, riflette sulla storia che, nella finzione letteraria, ha iniziato a narrare, come un diario di eventi oramai lontani, ma che hanno segnato la sua esistenza, spingendola lontano dall’Italia, fino in Australia, nella consapevolezza, tuttavia, che “Non c’è più il tempo per ricominciare a vivere”.
Non potendo più “ricominciare a vivere”, Margherita viene sollecitata a scrivere per raccontare quello che definisce un incantesimo che la tenne prigioniera spingendola a compiere azioni irreparabili, per riuscire a fuggire e conquistare (solo apparentemente, tuttavia) la libertà. Il diario di Margherita, come apprenderemo, ha una finalità terapeutica (nella narrativa italiana, questa non è certamente una novità), ma il lettore non saprà mai se l’esito sarà positivo. Come non saprà (il lettore) cosa sia realmente accaduto nella casa di vetro, da cui era possibile vedere la cupola di San Pietro, che Margherita aveva definito una Camelot, luogo incantato, di leggende fiabesche, insomma, ma che ben presto si rivelerà un finis terrae, un hortus conclusus in cui niente è come appare.
Margherita viene accolta nella casa di vetro (una villa senza pareti di cemento, appunto, attribuita al celebre architetto contemporaneo Rem Koolhaas) come istitutitrice di Lucrezia e Lavinia, due gemelle deliziose e talentuose, alle quali dovrà insegnare le lingue straniere e seguire nello studio del pianoforte e nello sport. Le due gemelle, però, riveleranno ben presto una forza soprannaturale, capace di determinare gli eventi e richiamare fantasmi inquietanti dai quali Margherita dovrà fuggire.
“Loro” si presenta come un romanzo gotico, nel solco della tradizione letteraria del genere, ma, come lo stesso autore ha avuto modo di affermare, è anche altro. Può infatti essere letto come un romanzo di fantasmi, come un romanzo sul bene e il male, sull’essere e apparire, su ciò che è reale e ciò che è immaginato. Insomma, “Loro” è un romanzo che sfugge ad ogni definizione, che inquieta, ma nello stesso tempo rasserena, perché spinge il lettore a fare i conti con se stesso e la propria coscienza. Perché, come scrive Cotroneo:
“I fantasmi si evocano perché ci obbediscono, e non il contrario”.
Ripropongo la mia lettura di “Due vite” a cui è stato appena assegnato il “Premio Strega”.
Inizia come una fiaba, prosegue come un racconto in cui biografia e autobiografia si intrecciano tessendo la narrazione di un’amicizia a tratti difficile, ma mai venuta meno. Anche quando la vita, per un periodo ha separato, anche quando la morte sembra avere tolto ogni possibilità di incontro. Perché nell’assenza il dialogo con l’amico, quello vero con cui si sono stati condivisi i giorni della spensieratezza o del dolore, non viene interrotto, nemmeno nella distanza.
Due vite di Emanuele Trevi è tutto questo e, certamente, tanto altro che il lettore avrà modo di scoprire attraverso la ricostruzione dell’esperienza umana e culturale di Rocco Carbone e Pia Pera, certamente autori di “nicchia”, ma il cui contributo nella storia della letteratura italiana non può certamente essere trascurato.
Dalle pagine di Trevi emergono due ritratti complementari di Carbone e Pera.
L’uno (per dare valore alla vecchia locuzione latina, secondo cui nomen omen) spigoloso e duro, tormentato da una profonda infelicità, provato da un male di vivere senza nome che ne ha condizionato la vita fino alla morte prematura..
L’altra una signorina per bene, ma tenace e determinata, profonda conoscitrice della letteratura slava, abile traduttrice, capace di rinunciare alla carriera per ritirarsi in un podere di famiglia e dare vita ad un giardino, figlio di un sogno inseguito anche negli anni della terribile malattia che l’ha portata via prematuramente, ma che lei ha affrontato con dignità encomiabile.
Così Trevi: “Quando per lei è arrivato il momento, ha rivelato enormi riserve di saggezza e forza d’animo, combattendo bene la sua battaglia […] Era semmai una persona intensa, dotata di un’anima prensile e sensibile, incline all’illusione, facile a risentirsi”.
Due persone complesse Carbone e Pera con i quali l’autore ha condiviso sia momenti spensierati che scelte difficili. Non è dunque peregrina l’idea che Trevi (certamente inconsciamente) narrando di Carbone e Pera abbia voluto raccontare di sé, dell’amore amicale nei confronti di due compagni di strada che la morte ha allontanato, lasciando dei sospesi che, in particolare per quanto riguarda il rapporto con Rocco Carbone, avrebbero potuto essere causa di rimorsi.
Fu Cesare Garboli nel suo saggio su Antonio Delfini ad affermare che “in ogni amicizia c’è un rimorso”, come ricorda Emanuele Trevi che confessa così il sentimento nei confronti di Carbone da cui per un lungo periodo si era allontanato con una determinazione che influenzò i rapporti successivi. Sebbene i motivi che avevano portato alla separazione sembrassero superati.
Dunque, Due vite può essere letto come un omaggio alla memoria di due amici, ma anche alla propria vita, nella consapevolezza che ciò che è stato deve essere rielaborato per proseguire nella navigazione, per tutto il tempo che ci sarà concesso.
Voglio concludere queste riflessioni con quanto scrive Trevi, poche frasi, che rivelano il senso di tutto il libro:
Nell’ultimo anno, segnato dalla ben nota pandemia, ci si è chiesti se, quando tutto sarà finito, ci ritroveremo migliori di quelli che eravamo prima del gennaio 2020, allorché anche in Italia si prendeva atto che quella provocata dal Covid 19 non sarebbe stata una semplice influenza e che il contagio non interessava solamente la Cina. Le risposte più ottimistiche hanno lasciato intravedere la possibilità di un mondo migliore, fondato sul rispetto nei confronti dell’ambiente che ci ospita e dei nostri simili. Molto presto, però, abbiamo dovuto osservare che, ancora una volta, la speranza di diventare migliori non è facilmente realizzabile. Essa appare, piuttosto, come un’utopia. Dunque, per definizione, è irrealizzabile. Non si tratta, siatene sicuri, di una lettura disfattista e pessimista, quanto, piuttosto, della facile considerazione di chi osserva dalle cronache quanto sta accadendo nel mondo, anche in questo preciso momento; di chi si sofferma a osservare l’animo umano, a scavare a fondo per comprendere le ragioni di fatti, anche lontani tra loro, ma tutti con un’unica ragione comune: il male che gli uomini portano con sé e che lasciano dilagare.
È quanto fa Loredana Lipperini (narratrice che si muove tra gotico e fiction, tra magia e profezia) che ci conduce in un paese immaginario delle Marche, Vallescura, che potrebbe avere, in potenza, gli elementi per assurgere a locus amenus, se non fosse abitato da donne (gli uomini nel romanzo sono poco significativi, figure marginali e irrilevanti) che portano dentro di sé il male, da cui, poi, far scaturire la peste, capace di sterminare tutti gli abitanti del paese.
La narrazione, che procede per livelli temporali diversi, ruota intorno ad alcune figure femminili di cui, certamente, quella più inquietante è Saretta, donna disperatamente incompiuta, vittima di se stessa, bulimica fin dalla fanciullezza, incapace di controllare il rapporto con il cibo che l’ha resa brutta e sgraziata, ma che –probabilmente per compensare – si è ricavata (apprendiamo anche con la violenza, non solo psicologica) il ruolo di despota di un’intera comunità, pronta a eseguire i suoi ordini, anche quando lasciati passare come semplici considerazioni:
“Tutti vanno da Saretta quando c’è un problema,
tutte, soprattutto, fra donne si trova la soluzione più in fretta,
gli uomini sono lenti a capire, si fissano su particolari
di nessuna importanza”.
Lei, dunque, non è sola nel suo ruolo di custode, ha saputo conquistare la complicità di altre donne, esecutrici passive della sua volontà: “Ma questa sera Saretta, Annalisa, Maddalena e Fiorella sono di guardia. Il paese appartiene a loro: sanno, controllano, decidono, dispensano consigli sedute sulle sedie di paglia o di tela dipinta a bolli rossi e arancioni”.
Quella di cui si parla nel passo citato non è una sera come tutte le altre (una tranquilla sera d’estate che le donne del sud della mia infanzia trascorrevano sedute sull’uscio per sfuggire al caldo con qualche chiacchiera): sanno, infatti, che “una catastrofe sta arrivando, e che li scaccerà”. Lo sa soprattutto lei, Saretta, che ha da tempo individuato il nemico da eliminare per salvare il paese dalla fine imminente: si tratta di Maria, un’altra donna. La donna venuta da fuori, indesiderata e guardata con sospetto fin dal primo giorno, isolata per volontà di Saretta in attesa che venga allontanata (anche con la violenza, se è il caso) perché considerata pericolosa per il bene dell’intera comunità:
“Noi siamo uniti, pensava Saretta con ferocia, e lo siamo
perché nessuno viene a mettere in discussione il nostro mondo.
Ma perché questo mondo continui dobbiamo contarci,
dobbiamo essere solo noi”.
Poi c’è Chiara, un’altra straniera, ma conosciuta e tollerata perché è la nuora di un’anziana del paese, che non si è lasciata assorbire dal cerchiomagico: “Chiara è un’anima buona, oltre che una sognatrice. Scrive, beve tè bianco, va alle mostre, nutre i gatti e legge molto”. Ha raggiunto Vallescura per aiutare la suocera Aurelia (la ritiene tale benché da anni abbia divorziato dal marito) che ha avvertito in pericolo grazie a un sogno, nel quale era chiamata a seppellire i morti di peste. Chiara vorrebbe portare via Aurelia, prima che il male si diffonda, ma la ferma la consapevolezza che “si può sconfiggere solo quando si è insieme. La natura è più forte degli uomini. Gli uomini possono sperare di batterla, momentaneamente, solo unendosi”.
Infine, c’è una giovane donna, poco più che fanciulla, che ha sfidato pubblicamente Saretta di cui adesso rischia la vendetta. Sarà accolta da Aurelia e Chiara. A Carmen, questo possiamo dirlo senza rivelare nulla, avrà il compito di trasmettere la memoria della peste e la consapevolezza che il male è sempre in agguato, soprattutto nei momenti di debolezza, quando si è più vulnerabili. Un compito quasi titanico nella consapevolezza che gli uomini non cambiano, sono sempre gli stessi, anche di fronte alla peste. Oggi, come nel Medio Evo o nel Seicento, durante le due pestilenze raccontate dalla storia e dalla letteratura.
Lo sguardo di Loredana Lipperini, infatti, si volge lontano nel tempo, per costruire un racconto che si legge d’un fiato (direi quasi che “si fa leggere”) coinvolge il lettore, lo costringe a guardare dentro il proprio animo e intorno a sé con sguardo acuto e mente libera dai pregiudizi.
La notte tra il 13 e 14 settembre 1321 Dante Alighieri chiude la propria esperienza terrena, andando a scoprire “se quanto aveva immaginato in tutti quegli anni era vero”: così si conclude la biografia di Alessandro Barbero – in questi giorni al terzo posto della classifica dei libri più venduti – il quale chiama Dante “profeta, per avere immaginato e messo in rima un mondo ultraterreno che ancora oggi continua ad affascinare i lettori di ogni età.
La scoperta di cui parla Barbero è proprio relativa all’aldilà che, nella finzione poetica, Dante aveva avuto il privilegio di potere visitare per mostrare agli uomini dove la loro vita avrebbe potuto condurli.
L’avvincente ricostruzione di Barbero si apre con la battaglia di Campaldino – certamente, ben nota ai lettori, anche a quelli che si sono avvicinati alla Commedia soltanto a scuola – a cui Dante partecipò come cavaliere, nel ruolo di feditore schierato in prima linea. Battaglia che vide gli uni contro gli altri armati guelfi fiorentini e ghibellini aretini, protagonisti di uno dei tanti episodi che insanguinarono la storia dell’Italia comunale di cui Dante fu protagonista e vittima.
La celebre battaglia tra fiorentini e aretini nella ricostruzione della biografia di Dante viene utilizzata da Barbero per definire la condizione sociale del poeta: sicuramente non di nobili origini, tuttavia abbastanza ricco da permettersi di combattere armato e a cavallo ed esibendo lo stemma di famiglia. Uno stemma parlante, come ci spiega Barbero “con un’ala d’oro in campo azzurro, fondato su un’improbabile interpretazione dotta del cognome: Aligerii, i portatori d’ali” . (pag. 46)
Attraverso il dialogo serrato con le fonti (la biografia vanta ben ottanta pagine di note fittissime, ahimé a fine testo, posizione che non accompagna (né agevola) la lettura, come sarebbe accaduto se fossero state collegate a piè di pagina) Barbero ricostruisce la vicenda pubblica e privata di un uomo incastrato nei meccanismi della politica dell’età comunale, caratterizzata da lotte sanguinose e scelte impopolari, non sempre eticamente accettabili. Come, purtroppo, accade ancora oggi nell’agone politico.
Dante, tuttavia, non fu solo un uomo politico. Fu, innanzitutto, un letterato, un poeta di talento che giovanissimo, grazie ai propri versi, venne accolto dall’élite cittadina, da poeti più anziani di lui, quali Forese Donati e Guido Cavalcanti, ottenendo fama e riconoscimenti.
Fu grazie al prestigio personale acquisito con la poesia che durante l’esilio venne accolto (e diremo quasi conteso) dai Magnati, certi del prestigio che la presenza di Dante avrebbe dato alla loro corte.
La biografia di Barbero aiuta a fare chiarezza su alcuni aspetti controversi della vita di Dante che può essere compresa soltanto se letta attraverso le vicende storiche dell’Italia Comunale. In particolare, la collocazione del poeta nello schieramento dei Guelfi Bianchi che non può essere considerata come scelta assoluta. Non sarebbe, dunque, del tutto erronea la definizione di “ghibellin fuggiasco” che Foscolo nei Sepolcri dà di Dante. Sia perché l’appartenenza all’uno o all’altro schieramento – come ci racconta Barbero – non era, all’epoca, definita e certa. Sia perché Dante, negli anni dell’esilio, assunse una posizione tendenzialmente (oggi si direbbe responsabilmente) filo ghibellina. E non poteva essere altrimenti, viste le difficoltà dei comuni di amministrarsi liberamente e il tributo pagato da molti.
Quello corrisposto da Dante è noto a tutti: l’esilio che lo vide ridotto in miseria, costretto a chiedere aiuto e sostegno, perdendo la propria libertà, di uomo e di letterato. Una condizione umiliante che, come leggiamo nella profezia di Cacciaguida riportata da Barbero, lo porterà a scoprire
Wotang ha otto anni quando, non visto, assiste alla carneficina della sua famiglia da parte di un manipolo di Specnaz che il padre, caritatevolmente, aveva accolto nella propria casa. Viene ritrovato, dopo alcuni giorni trascorsi a vegliare sui corpi dei genitori e delle sorelle, da un medico che accompagna le forze di polizia e dal quale viene adottato e cresciuto, come un figlio. Chi sia diventato Wotang e cosa abbia a che vedere con il progetto di una guerra santa contro gli infedeli, progettata da un gruppo jiahadista, lo lasceremo scoprire al lettore di quello che, indubbiamente, non può essere individuato come un semplice trhiller. Il lettore, infatti, si troverà coinvolto in una storia che, pur apparendo a tratti surreale, si delinea come drammaticamente realistica, presentando molti elementi comuni con l’attualità mondiale.
Il folle piano pensato da un gruppo di terroristi siriani prevede, infatti, l’eliminazione degli occidentali soliti a nutrirsi di prosciutti e salami: il virus letale, capace di uccidere in poche ore, dovrebbe essere veicolato dai suini che lo assorbirebbero attraverso l’acqua, ma dal quale non subirebbero alcun danno, limitandosi a trasmetterlo agli uomini. Possibile che ciò possa accadere? Di fatto la minaccia non è irrilevante, tuttavia il progetto non passa inosservato a chi dovrebbe vegliare sulla sicurezza dei cittadini. Un informatore mette in modo un’attività di intelligence che vede in campo “un cane da caccia di un tipo di ordine costituito”, così si definisce egli stesso (pag. 237): Alto (che di fatto, come leggiamo, è di statura normale). Ma il suo è un nome parlante il cui significato lasceremo scoprire al lettore. Sotto di lui, tra l’altro, troveremo Naima, una killer che avevamo incontrato nel precedente romanzo di Riccardo La Cognata (“La transazione”, 2018, Ventura Edizioni). Facciamo attenzione “Acque Formate” non è certamente la continuazione de “La transazione” da cui viene, per così dire, “scorporata” Naima (tecnicamente si tratta di un procedimento chiamato “spin-off”) che assume un profilo psicologico diverso, più femminile, capace di lasciarsi coinvolgere nella difesa di un adolescente bullizzato e di vivere una relazione sentimentale con un collega.
Insomma, gli elementi per intrigare il lettore non mancano. Aggiungete a quanto detto finora (poco, volutamente, visto che non è possibile rivelare che l’assassino è il maggiordomo) l’abilità narrativa e l’intelligente ironia per rendere allettante la lettura .Anche perché bisognerà scoprire se il virus influenzale emorragico messo a punto in un laboratorio bunker riuscirà a diffondersi e con quali conseguenze.
A questo punto, sono sicura che vi stiate chiedendo se Riccardo La Cognata si sia ispirato all’attualità: l’autore dichiara di avere iniziato a scrivere “Acque formate” nel 2018, ma che l’idea è addirittura precedente e che “è solo una coincidenza del caso”. Io, personalmente, gli credo. Voi decidete liberamente.
Immaginate che qualcuno vi offra un braccialetto super tecnologico, forse esteticamente non particolarmente avvincente, ma capace di interagire con la parte più profonda del vostro essere, suggerendovi di lasciare perdere durante una discussione che sta alterando il vostro umore o segnalandovi il negozio da cui è possibile ricevere sulla porta di casa i vostri biscotti preferiti, in un formato extrafamiliare e scontatissimo. Aggiungete a ciò che questo braccialetto super tecnologico è in grado di indicare un piano alimentare e di fitness che vi permetta di tornare in forma, giovani (almeno nello spirito) e scattanti, pronto a segnalarvi eventuali eccessi che potrebbero compromettere il risultato raggiunto.
Aggiungete ancora che l’uso di tale braccialetto super tecnologico vi consenta l’esonero dal ticket sanitario e l’accesso a negozi esclusivi da cui uscire senza passare dalla cassa: l’acquisto sarà registrato dal vostro monile avveniristico e prontamente addebitato sul vostro conto.
Probabilmente, qualcuno, forse tra i più pigri, dirà che non sarebbe male.
Altri, probabilmente più maliziosi, si chiederanno quali sarebbero le condizioni per avere accesso a così tanti privilegi.
Sono proprio questi ultimi a porre l’attenzione sul tema del romanzo di Rielli il quale, attraverso la confessione del protagonista, Marco De Sanctis, ci offre un’analisi spietata del tempo che stiamo vivendo prospettando una società futuribile, senza dubbio distopica, ma che (come è accaduto con altri romanzi distopici) rischia di diventare profetica.
Marco De Sanctis scopre che con la sua laurea in Filosofia difficilmente potrà entrare nel mondo del lavoro. Potrebbe tentare con l’insegnamento, ma le liste di attesa sono lunghe e potrebbero trascorrere dei decenni prima di potere conquistare una cattedra. Decide, pertanto, di sfruttare la propria cultura e l’abilità narrativa inventando un blog satirico che, in breve, ottiene un notevole successo. Uno spazio virtuale attraverso il quale denunciare il “male che le macchine, i computer, gli algoritmi stavano facendo all’umanità”.
In breve tempo, però, Marco De Sanctis entra a far parte proprio di quel mondo da cui si sentiva estraneo (si definiva addirittura un luddista!) e fonda una startup, la Before, un’azienda di Big Data, capace di prevedere il comportamento di milioni di consumatori, grazie alla quale si ritroverà ricchissimo, senza però arrendersi (anche se in alcuni momenti potrebbe sembrare il contrario) alla realtà digitale, a quel mondo virtuale che ci vorrebbe tutti burattini manovrabili, senza cultura, né senso critico, cieche e obbedienti pecorelle, pronte a seguire a capo chino il capo branco.
Perché è questo quello che si vede sulle piazze virtuali che tutti, oramai, frequentiamo, mettendo in mostra la nostra vita e pronunciando sermoni su argomenti di cui non sappiamo nulla. Perché nella società del digitale non contano né conoscenze, né competenze. Un concetto che Rielli ha ben chiaro:
“Come lo spieghi a un bambino che cresce e che vede che l’insulto è senza conseguenze, che il merito non conta un cazzo, tantomeno il lavoro, il farsi il culo, l’appassionarsi a un progetto, il sapere qualcosa. No, solo l’odio, la superficialità, nessun senso di giustizia”.
Chi scrive sa, per professione, che quanto appena citato ha solide fondamenta: purtroppo, la convinzione che l’impegno e lo studio, rigoroso e approfondito, servano a ben poco, visto che tutto è disponibile (hic et nunc) su internet, è sempre più radicata. E, ahinoi, non solo tra i giovani con scarsa voglia di impegnarsi! Quei giovani educati, sul modello di molti adulti, a inseguire bisogni mimetici che non potranno mai soddisfare. Quei giovani che, magari seguendo le indicazioni di un capo popolo, attribuiranno la responsabilità del fallimento alla vittima di turno da sacrificare sull’altare di un dio senza nome. Non è dunque un caso che il protagonista faccia sua la lezione dell’antropologo René Girard le cui teorie ispirano il “Documento strategico Before” che chiude il romanzo.
Giorgio, gigante disperato ed aggressivo, ha dentro di sé il bambino che aveva salutato la madre, uscita per andare a fare la spesa e portata via dalla morte “senza avvertire nessuno, senza salutare”. Sul suo corpo porta i segni delle ferite che si è procurato ricordando quel giorno che ha segnato la sua vita, condizionando il suo rapporto con il mondo.
Alessandro , finita la scuola media, ha iniziato a lavorare con il padre per imparare il mestiere da muratore. Un giorno, in padre lo invita a tirare su un tramezzo e si allontana, convinto di fargli un regalo, offrendogli la possibilità di misurarsi con un lavoro importante. Al suo ritorno, però, il padre lo trova immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto, perso in una dimensione dalla quale non riesce a tornare, nonostante i tentativi di scuoterlo. Vive come un vegetale, estraneo a tutto ciò che lo circonda.
Gianluca non riesce a fare accettare la propria diversità alla madre che la considera una malattia vergognosa da curare a forza di trattamenti sanitari obbligatori (TSO) che per lui rappresentano una vacanza dalla “normalità”, uno spazio di libertà in cui muoversi senza i condizionamenti materni.
Sono alcuni dei personaggi con cui Daniele trascorre una intera settimana nel reparto di psichiatria dove viene ricoverato in TSO per un’esplosione di rabbia che ha quasi provocato la morte del padre. Un’esperienza che lo ha segnato profondamente e che ha rappresentato il momento parossistico di un disagio esistenziale che lo aveva portato ad affidarsi a diversi medici le cui cure si erano rivelate inutili.
Contrariamente a quanto credeva Daniele (il Daniele del TSO) non serve la chimica a curare la malattia dell’anima.
Malattia che nasce dal disagio di fronte al dolore del mondo.
Malattia che nasce dalla difficoltà di accettare con indifferenza la sofferenza di una umanità che porta su di sé il peso della vita, come una condanna.
Malattia che nasce dalla necessità di dare un senso all’esistenza che si scopre effimera e che richiede “salvezza”.
“Salvezza. Per me.
Per mia madre all’altro capo del telefono.
Per tutti i figli e tutte le madri.
E i padri.
E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri.
La mia malattia si chiama salvezza, ma come?
A chi dirlo?”.
La vita, con le sue complicazioni, le sue delusioni, le sue amarezze, non pesa solo sui “pazzi”. Anche coloro che non manifestano la malattia mostrano ad un occhio attento (com’è quello di Daniele) il peso che grava sulle loro spalle. Così, ad esempio, Luciano, uno degli infermieri del reparto psichiatria dal quale, appena arrivato Daniele vorrebbe sfuggire, ma dove scoprirà il valore dell’amicizia, della solidarietà incondizionati, della pietà, della comprensione che ci portano a fare nostri il dolore degli altri.
“Non aprirsi mai alla pietà, svuotare l’uomo sino a farlo diventare un ingranaggio di carne.
Sentirsi padroni di tutte le risposte.
È questa la normalità?
La salute mentale?
La vera pazzia è non cedere mai.
Non inginocchiarsi mai”.
Candidato al Premio Strega 2020, “Tutto chiede salvezza” non è semplicemente un romanzo.
Non è semplicemente un romanzo esistenziale.
È un dono che l’autore fa a noi lettore.
È il dono di un’esperienza drammatica e dolorosa che viene condivisa come dono per comprendere gli altri, imparare a leggere dentro l’animo delle persone che incontriamo e (perché no?) anche dentro il nostro.
Non inganni il lettore la semplicità (soltanto apparente) dello sviluppo narrativo (la storia di una nonna che segue, sfidando la distanza oceanica, i primi tre anni di vita della propria nipotina).
“Tempo con bambina”, infatti, affronta temi profondi dell’esistenza: il primo, fondamentale, è che l’essere genitori, nonni, zii, non è la conseguenza di un fatto biologico. Si può essere genitori anche accogliendo dal mondo i figli, invece di donarli al mondo. Come ha fatto Lidia Ravera, dopo la morte della sorella Mara che, gravemente ammalata, le ha affidato Maddalena, la figlia non ancora adolescente.
Grazie a questa maternità, oggi Lidia Ravera è nonna di Mara (Mara piccola) – per distinguerla dalla sorella (Mara Grande) – la bambina cui la narratrice è riuscita a dedicare parte del proprio tempo, sfidando quelli che nel libro definisce “pensieri da vecchia” (la difficoltà di raggiungere gli Stati Uniti sobbarcandosi lunghe ore di volo, ad esempio) nella ferma convinzione che la comunicazione a distanza, possibile grazie a Skype o Face Time, non possa sostituire la presenza fisica il cui valore non è equiparabile.
È questo un altro tema fondamentale del libro, tema legato al nostro tempo che a molti (fortunatamente non a tutti) regala l’illusione che la comunicazione in tempo reale, superando le distanze, possa sostituirsi al rapporto fisico:
“Non costa niente.
Non costa, ma quanto vale?
Vale quanto la presenza?”
Il libro, comunque, ruota intorno all’essere nonna, soprattutto per una donna (qual è l’autrice) con un passato da femminista e che, in quanto tale, aveva escluso la possibilità della maternità, comunque abbracciata con consapevolezza e amore all’arrivo del proprio figlio naturale. Un ruolo, quello della nonna, che non impone una funzione educativa rigorosa e severa, essendo questa riservata ai genitori, e che, conseguentemente, permettere di agire in maniera accattivante, mostrando soltanto la parte più piacevole di sé.
Che nonna è Lidia Ravera? Certamente, una nonna diversa da quelle del passato, chiamate a sostituire i genitori impegnati nel lavoro, che definisce madri “dal ventre appassito e dall’illimitata generosità affettiva”. Delle nonne di oggi scrive:
“Siamo nonne entusiaste, ma siamo sempre noi.
Quelle che non volevano essere madri e basta.
Quelle che non vogliono essere nonne e basta.
Noi. Una generazione di inquiete, invecchiate sì, riconciliate mai”.
Nonne tra i sessanta e i settanta, ma che continuano ad avere una vita professionale, nel caso della Ravera ricca di impegni. Nonne che non riempiono vuoti, ma sanno condividere le prime esperienze di vita dei nipoti, sebbene per pochi mesi all’anno.
Con Lidia Ravera durante l’incontro a Ragusa per la presentazione del suo libro per l’edizione 2020 di “A tutto Volume” (credit foto A Tutto Volume)
“Tempo con bambina” si presenta come un lungo racconto a Mara Grande per renderla partecipe dei primi anni di vita della nipotina, ma anche per condividere le trasformazioni di un Paese che la morte prematura non le ha permesso di conoscere. Un Paese che dal ’93 (anno in cui è mancata la sorella dell’autrice) non è migliorato:
“perché l’Italia è diventata un paese piuttosto estivo.
Dal clima mite e dalle molte bellezze.
Un paese lento, festivo, divagante.
Infatti sono ducentocinquantamila all’anno i giovani intraprendenti
che se ne vanno all’estero,
per non rischiare una eterna coatta vacanza”.
Tra i giovani che hanno lasciato l’Italia per affermarsi all’estero c’è anche Maddalena la nipote/figlia di Lidia Ravera che ha raccontato la genesi del libro ai lettori ragusani (numerosi e attenti) durante gli incontri di “A tutto volume”.
I
libri (certi libri) sono come le persone (alcune persone, fortunatamente, non
tutte): si presentano carichi di
promesse, lasciano intravedere importanti prospettive future, ma alla fine
lasciano una sottile scia di delusione.
È il caso di “Città sommersa” – proposto per
concorrere all’ultima edizione del
Premio Strega – che affronta gli anni difficili di lotta politica,
inseguendo il sogno socialista, culminata nel terrorismo.
La
ricostruzione di quegli anni è affidata alla protagonista, giovane donna non
ancora trentenne, lettrice di romanzi per una casa editrice, che sogna di
diventare scrittrice, ma deve fare i conti con un blocco che non riesce a
superare. Fino a quando, dopo la morte del padre, davanti
a domande rimaste senza risposta sulla vita di un genitore, scopriremo, misconosciuto, avverte
l’esigenza di sapere perché “a un certo
punto i morti tornano a cercarti, e ti devi sedere al tavolo con loro”.
Marta
si ritrova tra le mani un documento relativo ad un processo subito dal padre
Leonardo come presunto affiliato a Prima Linea, evento che ne ha cambiato la vita, la vita di un giovane uomo militante che
l’autrice non ha mai conosciuto, di cui ignora il passato. Spinta quindi dal
bisogno di apprendere (e comprendere) si
lancia alla ricerca di documenti e testimonianze, contattando le persone che con lui hanno
condiviso un percorso umano e politico in cui il sogno utopico di una società
senza sfruttatori né sfruttati veniva strumentalizzato dai capi di un’organizzazione
che dalle pagine della Barone appare spietata e opportunista.
Marta
scopre così che il padre Leonardo aveva sacrificato la propria giovinezza per “servire
il popolo”, aderendo ad un movimento che, però, finiva per stritolare i propri
adepti:
“Annullarsi,
cancellare la propria identità era un passo quasi obbligato:
non
si potevano avere sensazioni proprie, come predicavano gli opuscoli,
o
si sarebbe perso di vista il fine buono, il fine vero,
il
vago ideale di felicità per tutti i viventi
che
avrebbero obliterato i mali del mondo”.
Il
romanzo permette di conoscere la disillusione di molti giovani militanti le cui
scelte anche personali sono state imposte dai vertici del Pcim, partito di
estrema sinistra. In particolare, per Leonardo
Barone il disinganno diventa insopportabile dopo l’arresto e l’isolamento subito da parte
di coloro che aveva considerato compagni
di strada. Al punto che arriva a
dichiarare di avere sbagliato tutto e di avere sprecato la propria vita. Una amarezza
che Marta scopre troppo tardi, quando è oramai impossibile rimediare ai silenzi
e alle incomprensioni che hanno caratterizzato il suo rapporto col padre.
Senza
dubbio “Città sommersa” ha il merito di
approfondire una delle pagine più tormentate dalla storia dell’Italia degli
Anni Settanta, offrendo al lettore, soprattutto se, per ragioni anagrafiche, non
ha vissuto quegli anni con consapevolezza, diversi spunti di riflessione.
Tuttavia,
la narrazione mostra delle falle nell’uso della lingua che, a tratti, appare
ambiziosa: accade quando la Barone, che generalmente utilizza un linguaggio
medio, lascia scivolare vocaboli
eccessivamente ricercati e aulici, fuori contesto con la scrittura complessiva.
Un esempio per tutti: “fatagione” che troviamo nel terzo capitolo a cui, dopo
poche righe, fa seguito “che leggiucchiai in modo disordinato nei mesi dopo”.
(Successivi, forse avrebbe giustificato l’eleganza di fatagione,
che starebbe per incantesimo o magia) Ambizioso appare, poi, il richiamato allo
“smaliziato lettore” il quale (proprio perché smaliziato) non può non sentire
un’eco manzoniana. Si avverte , dunque, da parte dell’autrice una certa ansia
di prestazione che, a nostro modesto avviso, non serve al romanzo.
Sotto lo sguardo indifferente dell’Etna (a muntagna) il vicequestore Vanina Guarrasi indaga su un omicidio che assume i colori di un giallo internazionale.
Tutto
ha inizio un mattino d’inverno, sorprendentemente freddo per una milanese che,
atterrata a Catania per lavoro, si imbatte in un’auto
parcheggiata male e sulla quale scopre il
cadavere di un uomo. Lella Cantone, portatrice sana di luoghi comuni e
pregiudizi sulla Sicilia e sui siciliani, non ha dubbi che si tratti di un
delitto mafioso, ma dovrà fare i conti con il vicequestore Guarrasi, rientrata
da Palermo e pronta a tuffarsi in un’indagine che riserverà non poche sorprese.
Seguendo
uno schema già collaudato nei due precedenti polizieschi, il vicequestore si
muoverà con la determinazione e la spregiudicatezza che la caratterizzano,
dibattendosi tra Catania, Taormina (dove il ritrovamento del cadavere di una
donna svelerà risvolti interessanti) rapporti d’amicizia e d’amore, con la
collaborazione del vecchio commissionario Patanè, da anni in pensione, ma partner
ad honorem di Vanina che suscita l’irosa gelosia della moglie.
Poiché
si tratta di un poliziesco, non dirò più nulla sulla trama che è sacrosanto diritto del lettore scoprire da
una pagina all’altra. Sappiate però, almeno quanti non vi siete ancora
imbattuti nei romanzi di Cristina Cassar Scalia, che anche “La logica della
lampara” si distingue per i numerosi personaggi cui l’autrice ha dato vita con
grande abilità, molti divenuti familiari, in quanto presenze costanti già nei due precedenti polizieschi: “La
logica della lampara” e “Sabbia nera”. Tra tutti, naturalmente, emerge Vanina
Guarrasi donna dalle straordinarie doti investigative, amante della cucina
(nonostante i chili che si accumulano con l’età) appassionata cinefila, amica
sincera e generosa, mai in competizione con le altre donne (molte bellissime)
che la circondano. Una donna dalla vita tormentata, segnata da un dolore con
cui continua a fare i conti e che non la rende libera di amare, causa di paure
e angosce che la tormentano, che la spingono lontano da Palermo (sua città
natale dove tutto è cominciato) ma, allo stesso tempo, ve la attraggono.
“Odi et amo”, come avrebbe detto Catullo, “odio
e amo … e mi sento messo in croce”.
Anche Vanina Guarrasi porta la propria croce, senza lamentarsene, con la determinazione e la forza che solo una
donna (e in particolare, viste le circostanze, una donna siciliana) può avere.