L’amore che non basta

Anna, oramai anziana, un giorno non ha fatto più ritorno a casa dove il marito, Severino, l’ha attesa, giorno dopo giorno. Fino a quando, un anno dopo, in un grigia alba invernale, trascinando una vecchia valigia, Severino parte dal porticciolo di Stromboli (dove si erano trasferiti dopo la pensione) per     ritrovare  e riportare a casa la donna della sua vita, perché questo è stata Anna per Severino.  

Per un intero anno, Severino si è preparato al viaggio, con dedizione e rigore, passeggiando nell’isola per preparare un corpo stanco e malato al lungo pellegrinaggio lungo la Sicilia orientale, in una sorta di via crucis, di città in città, tra i luoghi vissuti e, apparentemente, solo apparentemente, condivisi: Librizzi, Siracusa, Oliveri…  Nelle città abitate e sofferte, incontrando gli amici della giovinezza, riannodando i fili di una vita, rievocando brevi attimi di gioia e dolori profondi,  Severino scoprirà una verità che negli anni gli era sfuggita, ma che, molto probabilmente, non aveva saputo leggere.

Accompagnando Severino, il lettore incontrerà, senza maschere né finzioni,  Anna, seguendola dagli anni della fanciullezza alla maturità. Il viaggio di Severino è dunque il pretesto per  ricostruire la storia di Anna, attraverso un alternarsi di voci e intrecci,  felicemente costruiti dall’autore, un esordiente che promette di regalarci altre opere di grande valore narrativo. Mentre Severino si muove nel presente della ricerca, riconquistando e rileggendo il tempo vissuto, vediamo Anna vivere una vita che non ha scelto, vittima della volontà altrui, accettata per non fare soffrire chi le vuole bene.

   “Le mamme a volte sono egoiste.

Non lo fanno apposta, Dio le mette al mondo per proteggere i figli

e quando è ora non sanno come si fa a lasciarli andare”. 

È  la riflessione che Severino regala ad una giovane donna incontrata all’inizio del viaggio, una riflessione che, come accade a chi ha tanto vissuto, è frutto dell’esperienza di una vita, del dolore sperimentato nella propria vita  o in quella di altri. Nel caso specifico nella vita di Anna, costretta a soffocare il desiderio di vivere come una donna libera e seguire la volontà della madre per la quale:

“Na fimmina nasce per essere mugghìeri di un uomo e mamma d’un figghiu”.

Così Anna, dopo avere provato a sottrarsi,  è stata moglie, cedendo all’amore di Severino; ha cercato disperatamente la maternità e quando ha messo al mondo (facendosi beffa della medicina che la voleva sterile) il proprio figlio avrebbe voluto legarlo a sé, condizionandone l’esistenza, decidendo per lui, pur sapendo che “Il bene di una mamma è pericoloso, può essere acqua e zucchero, ma pure veleno”.

Matteo Corrente, pagina dopo pagina, con profondità e pietas ci regala il ritratto di una donna che non ha saputo ribellarsi, probabilmente, come dice Severino, per mancanza di coraggio. Una donna, comunque, che non può essere giudicata, ma che suscita nel lettore sentimenti di compassione  (inteso nel significato più alto, “patire con”) empatia e solidarietà.

Il cuntista diventato narratore

“… io sempre lo diceva che tutte li soferemente che mi incontravino tutte li soportava, … ma però non voleva morire maie, e neanche aveva maledetto alla mia madre e il mio padre, come tante ci ne sono, che bestimino alle suoie cenetore perché lavevino portato a questo monto” pag. 197

Einfühlung  è  una parola tedesca che possiamo tradurre con immedesimazione, ovvero la capacità di vivere idealmente emozioni, stati d’animo, esperienze di altri il cui racconto riusciamo a sentire come nostro. Tale processo, come sanno i dieci lettori che seguono il mio blog, non è scontato: non sempre  gli scrittori (talora neanche quelli premiati e celebrati da critici compiacenti) riescono a condurti dentro le loro storie, ad accompagnarti con la loro presenza e la loro voce. Perché, noi lo sappiamo bene, il lettore dà voce e volto ai personaggi che lo accompagnano attraverso le pagine scritte e lo seguono oltre quelle stesse pagine, quando chiude il libro e teoricamente, solo teoricamente, dovrebbero tacere.

Vincenzo Rabito l’inafabeto, come egli stesso si definisce, diventato scrittore possiede una profonda competenza espressiva che dalla narrazione orale riesce a trasferire sulla pagina scritta, rendendo con una lingua inventata, il racconto della propria esistenza vivo e appassionato ai lettori non solo ragusani. Il romanzo della vita passata, pubblicato a settembre, segue il ben noto Terra matta, divenuto un caso editoriale, dopo essere stato premiato dall’Archivio di Pieve Santo Stefano.

Con Giovanni Rabito
ospiti di Palazzo Antoci

Don Vincenzo (così ho imparato a chiamarlo, dopo averlo conosciuto attraverso le sue pagine) ha trascorso gli ultimi anni della propria vita, chiuso in una stanzetta per scrivere  il proprio “romanzo”, come egli stesso lo definisce, con la consapevolezza del proprio ruolo di narratore. Il risultato dell’impegno degli ultimi tredici anni della sua vita è raccolto in quasi millecinquecento pagine che il figlio Giovanni è riuscito a recuperare e di cui ha curato la pubblicazione.

Il romanzo, in parte, racconta vicende già conosciute in  “Terra matta”, ma presenta anche episodi e personaggi inediti, escludendone altri. L’esito, senza dubbio felicissimo, è la biografia di un uomo, un ragazzo del ’99, che ha vissuto esperienze dolorosissime, si è trovato, poco più che bambino, in situazione disperate dalle quali con caparbietà e coraggio è sempre riuscito a venire fuori, lasciando a tutti noi un profondo insegnamento: la vita va accolta e vissuta, anche quando sembra non esserci speranza e nonostante i sogni infranti.

Giovanni Rabito legge per gli studenti del Liceo Fermi alcune pagine del romanzo paterno

Perché Don  Vincenzo aveva dei sogni che non ha potuto realizzare, ma non si è mai sottratto ai propri doveri di uomo: primo fra tutti, vivere. Il romanzo della vita passata ricostruisce la storia di un lottatore,   rappresentativa dell’esistenza  di milioni   uomini che, magari, non hanno sentito il bisogno di narrarla in forma scritta, limitandosi a raccontarla oralmente ai propri cari.

Niente resterà impunito

Il racconto doloroso di una generazione perduta

Alberto Boscolo è uno studente, uno come tanti:  dopo la maturità (superata con il massimo dei voti) si è iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia alla Statale di Milano e, come tanti giovani, si è lasciato affascinare dal sogno  di un mondo in cui non ci siano sfruttati e sfruttatori . Un sogno che in pochissimo tempo lo porta a superare i limiti della legalità , aderendo alle Brigate Rosse e partecipando  (in maniera attiva e convinta) alla lotta armata.

Alessandro Bertante si fa da parte per dare voce direttamente al suo protagonista, lasciando che sia lui a ricostruire il percorso che segna la trasformazione dello “studente sbarbato della Statale”, impegnato nel volantinaggio  davanti alla fabbrica della Sit Simens, nel  complice e ideatore (accanto a Renato Curcio) di feroci azioni criminali firmati dalle Brigate Rosse.

Il racconto  ci conduce nell’Italia degli anni Settanta tra giovani che convivono con i loro figli in case occupate, condividendo il cibo e gli ambienti, con i nuovi arrivati, spesso sconosciuti. Giovani che avevano fatto loro il mito di un Unione sovietica di fatto  mai esistita:

“Inneggiavano a Lenin, a Mao e a Stalin 

ma facevano già parte del nemico

e  alcuni dei dirigenti più scaltri

lo sapevano con certezza ma gli andava bene lo stesso” .

Il passaggio alla lotta armata, che ha segnato la storia del nostro Paese in maniera ancora oggi indelebile, scaturisce dall’attentato di Piazza Fontana, letto già allora come la prima strage di Stato, e dal presunto suicidio dell’anarchico Pinelli. Una lettura, quella del suicidio, immediatamente negata dal gruppo di Bertante per il quale lo Stato “ammazzava impunemente”. Ragione per cui si diffuse la convinzione in   “molti compagni che non era più tempo di farsi uccidere senza combattere”.

Quello che accadde successivamente (rapine sanguinarie per finanziare il movimento, sequestri lampo attentati dimostrativi  fino al sequestro Moro) è storia  condivisa. Come sia maturato tutto ciò, quale sia stato il costo pagato da giovani come Alberto Boscolo viene raccontato in un misto di storia ed invenzione da Alessandro Bertante che , utilizzando fonti e documenti storici, ricostruisce con l’estro del narratore, il percorso di giovani come Alberto Boscolo, un’intera generazione bruciata da un’ideologia, spesso non adeguatamente supportata:

“E poi c’ero io che non avevo una visione ideologica precisa,

ma mi lasciavo trascinare dalla voracità dei vent’anni e dall’urgenza dell’azione …

cercando di vivere la propaganda armata come momento politico principale

e, in qualche modo fondante, della mia visione rivoluzionaria”.

Viaggiatori anomali in territori mistici

Un atto d’amore per il cantautore che ha scritto la colonna sonora delle nostre vite

Ci sono incontri destinati a lasciare un segno indelebile nelle nostre vite. Avviene quando le nostre strade incrociano quelle di uomini che hanno tanto da dire e riescono a comunicarlo con la loro arte. Come la musica.

Franco Battiato ha rappresentato tutto ciò per il protagonista del romanzo, Federico Falco, cronista del settimanale Il Guiscardo,  che da Lecce vola in  Sicilia (con la  quale ha forti legami, grazie a nonno ‘Nzino di Scicli), alle pendici dell’Etna, per scrivere un articolo  sulla scomparsa dell’artista, lontano dalle scene da circa due anni. L’indagine, perché questo è, impegnerà Federico per giorni e, apparentemente, solo apparentemente, non porterà all’esito sperato. O meglio, non ci sarà l’esito sperato dal lettore. Perché  Federico, indagando, sarà costretto a scavare anche dentro di sé, a fare i conti con la propria vita, ma soprattutto con l’adolescente che è stato. Sarà, infatti,  costretto a risalire al tempo del suo primo incontro con il cantautore, quando questi non era ancora il Maestro, autore della colonna sonora che ha accompagnato le nostre vite. Non solo quella di Federico.

Il romanzo – un giallo sentimentale, se mi è concessa questa classificazione – si distingue per la scrittura elegante, ironica e colta; per i personaggi che, chi più chi meno,  accompagnano Federico, aiutandolo a far luce su un mistero che, magari, potrebbe non essere tale: Melina, l’avvenente barista, seducente e materna, capace di  coccolare, ma anche di redarguire, mentore e aiutante; suor Edith che cerca la presenza di  Dio “nell’eleganza di ogni stelo di ginestra, nel profumo delle cortecce d’albero, dentro la buccia perfetta di ogni ghianda” (pag. 84), ma che è anche capace di leggere in profondità i testi di Battiato, superando i luoghi comuni di molte interpretazioni; l’anziano sarto che lascia la propria bottega per concedersi una pausa caffè e racconta a Federico di quando ha cucito il gilet che Battiato ha indossato per il suo ultimo concerto.

È, però, Costanza, giovane astrofisica dell’osservatorio di Catania, il  personaggio destinato a scompigliare le (poche, a dire il vero) certezze di Federico,al cui passato è sorprendentemente legata; a spingerlo  a superare inibizioni e paure, a sorprenderlo con scelte decisive.

Nel racconto il co-protagonista è proprio Franco Battiato la cui assenza si fa presenza con le sue canzoni, attraverso le quali il Maestro ha conquistato l’immortalità, senza tempo né spazio. Come dice nei suoi versi che raccontano  dell’esistenza di mondi lontanissimi e che ci hanno regalato il sogno di avanguardie di un altro sistema solare.

Inquieta fratellanza

Serge, colui che dà il titolo al romanzo, è il maggiore di tre fratelli – di origine ebraica e  oramai adulti – ciascuno dei quali porta con sé  il peso di una vita già vissuta, con il carico di errori e delusioni, di promesse mancate, di sogni non realizzati. La storia di Serge, apparentemente il più spregiudicato, intraprendente fin da ragazzo, capace di inventare attività lavorative puntualmente destinate al fallimento, è narrata da Jean, il secondogenito, che non ha mai brillato per iniziativa personale, è  cresciuto all’ombra del fratello e fin da ragazzo sembrava destinato all’anonimato.

“Io a mio padre non interessavo.

Ero il classico ragazzo senza grilli per la testa,

che a scuola si impegnava,

faceva ogni cosa come suo fratello

e non aveva la minima personalità”

Jean è un uomo generoso, disponibile nei confronti della famiglia, di amici e  parenti ormai vecchi e malati, pronto a donarsi – fino a  fare da padre al figlio della propria ex, un bambino problematico, che fatica a socializzare (autistico?) – ma incapace di cambiare la propria vita. Eppure è  consapevole di ciò che non funziona;  sa cosa dovrebbe fare per essere felice, ma non ne ha il coraggio. O, probabilmente, non vuole cambiare.

Infine, c’è Nana, la bimba vezzeggiata e amata da mamma e papà, la preferita, ma indipendente nelle scelte, soprattutto in quelle sentimentali, tanto da deludere tutti. Nana è una donnina petulante, ma appagata e, apparentemente, felice delle proprie scelte.

Nel romanzo il tema centrale, ma non certo l’unico e comunque non il più importante, può essere individuato nel rapporto tra i  fratelli. O, meglio ancora, in quel che rimane della famiglia d’origine (luogo di conflitti e incomprensioni, anche devastanti) quando i genitori scompaiono e i fratelli sono  diventati altro rispetto a quelli che condividevano gli spazi della fanciullezza, con tutto ciò che questo comporta. Ed è proprio sull’«altro» che esplodono i conflitti, anche insanabili, che mettono a dura prova i legami di fratellanza, perché, come dice Jean:

“I legami fraterni si sfilacciano,si disperdono,

finiscono per non ridursi ad altro

che a un sottile nastrino di sentimenti o conformismo”.

Per Serge, Jean e Nana le tensioni rischiano di implodere durante un viaggio ad Auschwitz-Birkenau intrapreso su richiesta di Joséphine, figlia di Serge, che sente il bisogno di vedere il luogo in cui i propri parenti sono stati tragicamente uccisi, insieme con altri milioni di ebrei. I tre fratelli si ritrovano così a fare i conti con la Storia in un contesto in cui emergono le contraddizioni della memoria, vissuta da taluni con fanatismo quando non con la superficialità del turista improvvisato.

Sono certamente queste le pagine più belle del romanzo nelle quali Yasmina Reza – parigina di origine ebraica, padre iraniano, madre ungherese – riesce a dare il meglio di sé, facendo emergere (senza retorici sentimentalismi) il dramma di milioni di bambini, donne e uomini.

Ed è sempre durante il viaggio che emerge la sofferenza ed il dolore di Serge che  – nell’indifferenza nei confronti di ciò che vede e nell’impazienza per l’entusiasmo della figlia e della sorella – mostra il tormento che accompagna la sua solitudine, abilmente mascherato nelle riunioni di famiglia.

Viandanti verso la nostra Itaca

Terramarina è la meta, come l’Itaca di Ulisse del mito antico, a cui ogni uomo tende. E, come per il mito antico, bisogna augurarsi che la strada (come ha scritto il poeta, greco anche lui, Kavafis) sia lunga, perché bisogna arrivarci carichi  di vita e di esperienze (proprio come Ulisse), “ricco dei tesori accumulati per la strada”.

Terramarina è il secondo romanzo di quella che diventerà la trilogia della “cricca della Tabbacchera”, donna d’acciaio, bella e forte, determinata e caparbia, coraggiosa e indipendente.  Sindaca Scassacoglioni (secondo l’epiteto che uomini dei palazzi che contano, dove il malaffare è di casa, le hanno cucito addosso e che lei indossa con orgogliosa consapevolezza) che vuole fare la rivoluzione , “cambiare il mondo a colpi di poesia”, con l’Amurusanza (che è anche il titolo del primo romanzo)  termine che racchiude la parola amore, ma che va oltre ed a cui aggiunge una dimensione che è fatta di accoglienza, solidarietà, apertura:

Parole di fuoco, buttate giù per raccontare quella che si presenta come una fiaba di Natale, con una neonata (chiamata Luce, “bambina di luce giunta in quella casa a dissolvere il lutto e a portare la gioia”), partorita per strada sotto la neve, da una madre disperata per la quale non sembra esserci nemmeno una stalla con la mangiatoia.

“a far capire che porto siamo, signori miei,

porto che si fa madre,

che accoglie e non rigetta,

che apre e non si chiude,

che abbraccia e sfama a dispetto dei canazzi

che ringhiano di chiusure e di cesure e di leggi a sfratto,

intanto che la vita se la gioca

con la morte – e perde – in mezzo a un mare assassino”.

Con Tea Ranno, a Ragusa per presentare il suo libro

Nel  costruire il suo racconto fiabesco, però, Tea Ranno non ignora la realtà del suo tempo (che è anche il nostra) e non distoglie lo sguardo da quel mare dove navi di disperati, fuggiti dalla violenza, dalla guerra, dalla fame, aspettano di scendere e toccare una terra che è sempre stata luogo di accoglienza, di popoli diversi, di genti venute per conquistare, ma anche per lasciarsi conquistare.

Simbolo di questa terra diventa la casa di Agata la  Tabbacchera che agli amici aveva detto e ridetto “Sula lassatimi!”. Perché in quella notte di Natale lei aveva bisogno di solitudine, per fare quattro conti con se stessa. Il caso deciderà diversamente e la sua casa, buia e triste, nella cui solitudine avrebbe voluto annegare, si trasformerà in porto d’accoglienza, illuminata come un faro nella notte, sfavillante di Amurusanza.

Originaria di Melilli, a cui è legata indissolubilmente, nonostante da un quarto di secolo viva a Roma, Tea Ranno è oggi forse una delle voci più autorevoli della Sicilia. Una Sicilia che si fa mito, con le bellezze e le brutture che ne hanno deturpato il paesaggio e l’anima, col suo essere “luce e lutto” (come diceva Bufalino), che Tea Ranno riesce a mettere sulla pagina, con profondità e sentimento, con una scrittura che si fa poesia nella quale si è riservata un cantuccio, lei la “signora con il taccuino” che da Roma torna nella terra dei padri, alla ricerca delle radici, per ascoltare storie, anche di uomini e fatti lontani, ma che nelle sue pagine diventano emblema dell’ esistere al di là dello spazio e del tempo.

Il Potere Taumaturgico della scrittura

Premio Campiello 2022

L’autore, appena venticinquenne, fa il suo ingresso nel mondo letterario con un romanzo che, come nelle favole della tradizione, ha come protagonisti gli animali, con i vizi, le virtù, i sentimenti degli uomini. Disperati e speranzosi;  appassionati e crudeli;  devastati dalla vita, ma capaci di guardare oltre e reinventarsi;  sognatori e realisti proprio come gli uomini. I personaggi di questa storia sono faine, cani, maiali, tassi, ricci, volpi che allegoricamente ci rappresentano e ci dicono cosa siamo e cosa possiamo essere.

L’io narrante e protagonista è una faina, Archy:  il padre è stato assassinato da un umano che lo ha sorpreso a rubare, lasciando la moglie e i figli nella disperazione di un inverno che rende difficile, se non impossibile, cacciare. Il bisogno lascia poco spazio all’amore materno e agli affetti familiari, consumati dalla necessità di sfamare la nidiata, trascurando, chi particolarmente debole, sembra avere poche possibilità di sopravvivenza.

Così, quando, Archy, cadendo da un albero nel tentativo di portare a casa delle uova di uccello, rimarrà zoppo, sarà ceduto dalla mamma  alla  vecchia volpe usuraio. Ha inizio per Archy la sua nuova vita, il primo di tanti cambiamenti che caratterizzeranno la sua esistenza:

“La vecchia volpe decise di insegnarmi tutto quello che sapeva”.

In poco tempo, nonostante i maltrattamenti, Archy diventa l’apprendista della volpe che, intuendo di essere oramai alla fine della propria vita, desidera un erede a cui lasciare i beni accumulati in anni di usura violenta. In particolare, però, la volpe insegna ad Archy a  scrivere, a leggere ed interpretare un libro, il Libro, una bibbia rubata negli anni della giovinezza.

Alla lettura della bibbia la volpe ha dedicato parte della propria vita, convincendosi  di essere “un figlio di Dio” e decidendo di raccontare la propria esperienza, una vita di rapina e violenza con cui fare i conti, prima di superare la soglia dell’esistenza per andare verso un oltre di cui non si ha consapevolezza.

Il romanzo, così, supera i confini della favola, per diventare un libro sulla scrittura, su questa capacità, tutta umana, che ci rende  “figli di Dio”, regalandoci l’eternità, come dice Archy:

“mi fece riflettere sul potere della scrittura, quanto fosse immune al tempo”.

Per cui, oramai, vecchio, stanco e solo, disperatamente solo, Archy decide “che l’unico compromesso prima di sparire era raccontarmi”, fino a scoprire  il potere taumaturgico della scrittura:

“Più scrivo, più l’ossessione della morte si fa leggera.

La sconfiggo ad ogni pagina, specchiandomi nel colore, nelle linee che traccio.

Dio porterà la mia anima chissà dove, disperderà il mio corpo nella terra,

ma i miei pensieri rimarranno qui, senza età, salvi dai giorni e dalle notti”.

Affiderà il suo racconto autobiografico, insieme con la bibbia avuta in dono dalla volpe, al suo ultimo amico, Klaus, come un tesoro prezioso, da tenere sempre con sé:

“Ti diranno tante verità, ti faranno male,

ma non potranno mai ingannarti su quello che sei,

su quello che siamo”.

Quando l’infanzia non aveva voce

Narratrice e poetessa, Tove Ditlevsen è la scrittrice danese nota soprattutto per il suo impegno contro i soprusi e le violenze nei confronti dei bambini, oltre che per l’attenzione nei confronti della condizione femminile che in Infanzia assume i colori della confessione.

Primo volume della “Trilogia di Copenaghen” considerata l’evento letterario dell’anno, la trilogia è stata salutata come un capolavoro che si unisce al coro di voci femminili che, da diversi Paesi, hanno raccontato e denunciato la loro condizione.

Tove vive la propria Infanzia in un piccolo bilocale di Vesterbro,  quartiere operaio di Copenaghen, tra mille problemi causati, in particolare, dalle difficoltà economiche che la famiglia deve affrontare: il padre è  spesso senza lavoro a causa della propria militanza comunista. È lui che spinge Tove alla lettura, ma, quando la bambina gli confesserà  il sogno di diventare poetessa,  le dice, senza mezzi termini, che non è un lavoro da donne. Nonostante ciò, Tove continuerà a scrivere segretamente poesie su un quadernetto che nasconderà gelosamente per non essere derisa.

La sua formazione è affidata alla madre, rancorosa e distratta, incapace di accoglierla e comprenderla causa di una profonda sofferenza che la accompagnerà sempre:

Il mio rapporto con lei è stretto, doloroso, traballante,

e se voglio un segno d’affetto devo cercarlo io.

Qualunque cosa io faccia, la faccio per compiacere lei,

per farla sorridere, acquietare la sua rabbia.

A ciò bisogna aggiungere la difficoltà di comprendere il mondo degli adulti dai quali giungono mezze frasi e rivelazioni che Tove non riesce a decodificare: due mondi, quello di adulti e bambini nella prima metà del Novecento, che non riescono a incontrarsi, a causa di segreti che la bambina non comprende. Ci penserà la sua  amica  Ruth, bambina senza regole e spregiudicata, alla quale si accosta per il suo bisogno di essere accolta e considerata, a svelarle il mondo degli adulti. Tove, però, avverte una profonda distanza da Ruth, scavata ulteriormente dal tentativo di agire in maniera spregiudicata e libera come l’amica, ma condannandosi al fallimento  per la paura e l’insicurezza che le sono compagne.  

Con linguaggio semplice ed immediato, Tove Ditlevsen ci guida nel proprio mondo, dove:

“L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli”.

L’infanzia di Tove Ditlevsen si presenta come una condanna a cui “non si sfugge” perché “resta attaccata addosso come un odore”.

E’, di fatto, un’infanzia dolorosa, dalla quale osservare

“di nascosto gli adulti, la cui infanzia è seppellita in loro,

lacera e sforacchiata come un tappeto consunto e tarmato,

al quale nessuno pensa, e che non serve più.

A guardarli non si direbbe che ne abbiano avuta una”.

L’insostenibile leggerezza del vivere

Una donna sulle bianche scogliere,  sta tornando in Inghilterra  dall’Italia per sfuggire ad un amore sbagliato,  in attesa di imbarcarsi   decide di scrivere una lettera alla sorella. Non usa della normale carta da lettera, ma un elegante quaderno, acquistato a Venezia, con la copertina rigida di seta azzurra marmorizzata. Niente di sorprendente, considerato che la lettera non potrà mai essere spedita, visto che la sorella è scomparsa venticinque anni prima.

Si apre così il romanzo di Coe che chiude la trilogia  (i due precedenti sono “La famiglia Winshaw” e “Il circolo dei Brocchi” ) che, secondo alcuni commentatori, costituisce il Romanzo ideale dell’autore inglese  campione della leggerezza della narrazione.

Una leggerezza, permettetemi l’ossimoro, profonda, capace di scavare dentro l’animo umano evidenziandone i limiti e le potenzialità, facendo luce sulle incompiute che ciascuno, non solo i personaggi di Coe ,si porta dietro perché manchevole del coraggio e della volontà di prendere in mano la propria vita e smettere di crogiolarsi in sogni adolescenziali, per vivere il presente ed essere artefici del proprio futuro.

Benjamin, promessa mancata della letteratura inglese, è il personaggio che meglio racconta questa dimensione esistenziale che lo rende un imbranato perdente, ma che, il lettore potrà scoprirlo da sé, potrebbe anche riscattarsi.

La vicenda prende le mosse alla vigilia del nuovo Millennio e si snoda durante il governo Blaire, nell’imminenza della Guerra contro l’Iraq  che vide l’Inghilterra in prima fila e mise in crisi le coscienze di molti, spingendo qualcuno a scelte radicali, tanto da rivoluzionare la propria vita a conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che pubblico e privato si intrecciano, sebbene in qualche caso, come apprenderemo verso la fine della  narrazione, la consapevolezza si acquista dopo tanto tempo.

Colpisce  il lettore la tragica attualità del racconto di Coe che,  a tratti, sembra diventare lo specchio del nostro quotidiano con le teorie complottiste di cui, ahinoi, quotidianamente leggiamo; con i rigurgiti neo-nazisti delle cronache odierne; con l’insofferenza, spesso sfociata nella violenza, nei confronti degli stranieri, dei diversi…

Eppure, c’è ancora spazio per la speranza  che nel romanzo è incarnata da due giovani personaggi: Patrick e Sophie, visti mentre  passano “sotto il grande arco della porta di Brandeburgo, mano nella mano; senza desiderare altro dalla vita, per il momento, che la possibilità di ripetere gli errori che avevano commesso i loro genitori, in un mondo che stava ancora cercando di decidere se concedere loro almeno questo lusso”.

Per amicizia, per amore

Sylvie e Andrée sono ancora due scolarette quando si incontrano tra i banchi di scuola e stringono amicizia. In particolare, Sylvie sarà come folgorata dalla piccola Andrée verso la quale proverà un profondo sentimento a cui non sa, né può, dare nome, un sentimento che va ben oltre l’amicizia.

Il rapporto si concluderà tragicamente: Andréè morirà giovanissima per  quella che  la scienza individuerà come una encefalite virale. Per Sylvie, invece,  a causare la morte della sua amica del cuore sono state le costrizioni, imposte dalla famiglia, che le hanno impedito di essere una giovane donna, libera di essere se stessa, di costruire la propria esistenza, inseguire  i propri sogni e realizzare il proprio sentire.

Nelle pagine di quello che possiamo definire un racconto breve autobiografico, Simone de Beauvoir ricostruisce  il suo rapporto con Elisabeth Lacoin, chiamata Zaza (Andrée nel testo) conosciuta alla scuola cattolica Adeline Desir.

Zaza era una bambina apparentemente libera, sfrontata con l’insegnante, indipendente.

Solo apparentemente, però. In quanto, la famiglia, della borghesia cattolica militante, la limita e la condiziona con freddo e distaccato rigore , concretizzato nelle regole imposte dalla madre, figura che al lettore appare persino malevola.

“Avevo invidiato spesso l’indipendenza di Andrée;

a un tratto mi sembrò molto meno libera di me.

C’era tutto un passato dietro di lei;

e intorno a lei quella grande casa, quella famiglia numerosa:

una prigione dalle vie d’uscita accuratamente sorvegliate”.

 Nel contesto familiare di Andrée/Zaza, Sylvie/Simone  appare come una minaccia. Lei che durante la fanciullezza appariva poco libera, comincia a vivere in maniera indipendente scegliendo i propri studi senza limitazioni e manifestando la propria autonomia, mentre Zaza  è  incastrata tra i più  disparati doveri sociali che le impediscono di vedere la sua amica, di gestire il proprio tempo ed organizzare la propria esistenza, di studiare il violino, di scegliere le proprie letture, di ritrovarsi sola.

Il racconto supera i limiti dell’esperienza autobiografia aprendosi ad una riflessione profonda sulla condizione di molte donne (ieri, ma forse anche oggi. Per alcune donne almeno e in alcuni ambienti certamente) costrette a soffocare ogni slancio vitale, a mortificare la propria individualità perché sommerse da tradizioni alienanti, da forme, più o meno scelte, che le mortificano.