Siamo vivi perché empatici

Si chiama empatia la capacità di sentire le emozioni degli altri, come se fossero proprie; la capacità  di vedere nell’altro se stessi, superando i limiti del narcisismo infantile e dell’individualismo egoista che ci allontana dai nostri simili. Donne e uomini empatici possono essere una minaccia per chi governa attento a conservare il potere con strumenti camuffati dai  colori della democrazia, ma di fatto dispotici e illiberali.

 È quanto accade nel paese di DF dove ai cittadini, appena nati, viene inoculato un vaccino che cancella la capacità di provare emozioni e sentimenti, sia  positivi che negativi. Donne e uomini  sono così condannati a diventare adulti incapaci di provare sentimenti, affetti,  ambizioni professionali;  senza  mai conoscere la bellezza  dell’arte, nelle sue molteplici espressioni, dalla pittura alla letteratura alla musica. Donne e uomini nel paese di DF sono automi incapaci di provare desiderio e volontà; sono monadi che vivono  immersi in un mondo grigio, colore declinato nelle diverse sfumature, costruito per soddisfare tutti i bisogni individuati attraverso algoritmi pensati per tutti gli aspetti dell’esistenza: dalla famiglia (matrimoni di durata quinquennale con partner imposti allo scopo di procreare altri automi sottratti alla nascita) al lavoro (assegnato sulla base di capacità manifestati fin dall’infanzia), allo sport (tristemente vissuto in palestre casalinghe organizzate dal potere).

“… La cucina dei classe cinque aveva i comuni elettrodomestici, frigorifero, forno, piano cottura cappa e anche un forno a microonde e una piastra per panini, tutti in formica grigia quattrocentoventidue tranne i profili che erano neri settecentoventisette, una stanza per l’esercizio fisico con una cyclette e un  tapis roulant e attrezzi e pesi verdi trecentosedici, la stanza per l’esercizio fisico era considerata una priorità dal governo di DF, l’esercizio fisico era fondamentale per garantire una perfetta rotondità affettiva che non cedesse alle sbavature di emozioni viatico di pazzia”.

È questo il mondo immaginato da Giulio Cavalli nel suo ultimo romanzo  (meritatamente segnalato  per concorrere al Premio Strega, ma, purtroppo, escluso dalla dozzina dei finalisti) che si legge d’un fiato, grazie anche ad una scrittura scorrevolissima, fondata su una sintassi che, spesso libera dalla punteggiatura, ci porta ad immergerci nella vita dei personaggi e a sentirne (empaticamente) il dolore e la delusione, la sofferenza e la scoperta, fino a svelarsi come metafora minacciosa del rapporto che lega governanti e governati, capaci di consegnare la loro libertà, volontariamente, per pigrizia o per vigliaccheria, al potere.

Un mondo indubbiamente distopico la cui costruzione richiama a “Fahrenheit 451” di Bradbury e “1984” di Orwell, ma che ci spinge a guardarci intorno, a riconsiderare il mondo in cui viviamo per non finire, al pari dei cittadini di DF, col consegnare la nostra libertà in nome di una sicurezza che, di fatto, si chiamerebbe schiavitù.

Siamo tutti monadi con lo smartphone

La vicenda ha inizio su un aereo dove in bussines class incontriamo Jim e Tessa, di ritorno da un viaggio a Parigi, il primo dopo la pandemia Sono attesi a New York a casa di due amici per celebrare il rito collettivo, tutto americano, del Super Bowl dell’anno 2022.

Da poche settimane nelle librerie italiane (particolarmente atteso grazie anche alle  strategiche interviste all’autore oramai ottantaquattenne e alle esaltanti recensioni pubblicate negli Stati Uniti e accompagnate dalla convinta dichiarazione da parte dell’editore, certamente finalizzata a dare conferma delle abilità profetiche di Delillo, che il libro è nato prima della pandemia) il racconto lungo, perché di questo di fatto si tratta, presenta forse qualche debolezza. I riferimenti alla pandemia  sono evidenti, nonostante le dichiarazioni dell’editore, ed è probabile che la scrittura ne sia stata ispirata e condizionata, come dimostrerebbero i riferimenti ad eventi oramai più che noti.

“Il silenzio”, comunque, ci spinge a riflettere (così come sta facendo il Covid-19) sul nostro stare al mondo e sulle conseguenze che la tecnologia ha sulle nostre vite e sul futuro del mondo stesso a cui ci conduce la lapidaria conclusione del racconto.

Mentre Kim e Tessa sono in volo, nella casa di Diane e Marx a  Manhattan  tutto è pronto e  si osserva già lo schermo su cui comincerà l’attesissimo evento. Assieme agli anziani coniugi, troviamo un’ex studente di Diane, Martin, un giovane fisico dal temperamento a tratti inquietante. Sta studiando un manoscritto di Einstein di cui cita la celeberrima affermazione che Don Delillo utilizza nell’esergo: “Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni”. Possiamo individuare dunque nel personaggio di Martin, pur anagraficamente lontano dall’autore, l’alter ego di Delillo il quale dichiara di non possedere uno smartphone e di continuare a utilizzare la sua vecchia macchina da scrivere.

Improvvisamente, nell’appartamento di Manhattan cala il silenzio: un silenzio assordante ed inquieto, provocato da un blackout che pone fine ad ogni possibilità di comunicare e che causa un atterraggio di emergenza dell’aereo su cui viaggiavano Jim e Tessa che prima  ritroviamo in fila al pronto soccorso, dove l’uomo dovrà farsi medicare una ferita riportata sbattendo sul finestrino, e subito dopo (non prima, però, di una scena di sesso, quanto mai improbabile, nel bagno dell’ospedale)  a casa di Diane e Marx .

Vediamo quindi i personaggi  interrogarsi sulle ragioni di un evento che “ha messo fuori uso la nostra tecnologia” senza la quale è impossibile comprendere cosa stia accadendo fuori dalle mura di casa. Non rimane che tentare di formulare qualche ipotesi attribuendo l’origine dell’evento (come per la pandemia) ai cinesi o all’incapacità del governo. Per la serie, come diceva un mio vecchio professore, “Piove, governo ladro!”.

“Potrebbe essere il governo degli algoritmi.

I cinesi lo guardano, il Super Bowl.

Loro giocano a football americano.

I Beijing Barbarians. Tutte cose verissime.

E quelli che ci rimettono alla fine siamo noi.

Hanno innescato un’apocalisse selettiva della rete.

La partita: loro adesso la stanno guardando e noi no”.

Si potrebbe dire che nel racconto prevale la struttura  dialogica (mimetica come direbbe un critico letterario) su quella meramente narrativa, ma non lo diciamo. Anche perché quelli che abbiamo letto (e che leggerete) sono monologhi, soliloqui, a tratti privi di senso e inquietanti.

Ciò che più inquieta, però, è che questa difficoltà nella comunicazione non è solo la conseguenza del blackout. L’esordio del racconto, quando abbiamo incontrato Jim e Tessa, ruota sul dialogo tra i due che, seppure a tratti sembrano comunicare, abbiamo percepito ciascuno chiuso nel proprio mondo.

Burattini senza fili, orfani del libero arbitrio

Immaginate che qualcuno vi offra un braccialetto super tecnologico, forse esteticamente non particolarmente avvincente, ma capace di interagire con la parte più profonda del vostro essere, suggerendovi di lasciare perdere durante  una discussione che sta alterando il vostro umore o segnalandovi il negozio da cui è possibile ricevere sulla porta di casa i vostri biscotti preferiti, in un formato extrafamiliare e scontatissimo. Aggiungete a ciò che questo braccialetto super tecnologico è in grado di indicare un piano alimentare e di fitness che vi permetta di tornare in forma, giovani (almeno nello spirito) e scattanti, pronto a segnalarvi eventuali eccessi che potrebbero compromettere il risultato raggiunto.

Aggiungete ancora che  l’uso di tale braccialetto super tecnologico vi consenta l’esonero dal ticket sanitario e l’accesso a negozi esclusivi da cui uscire senza passare dalla cassa: l’acquisto sarà registrato dal vostro monile avveniristico e prontamente addebitato sul vostro conto.

Probabilmente, qualcuno, forse tra i più pigri, dirà che non sarebbe male.

Altri, probabilmente più maliziosi, si chiederanno quali sarebbero le condizioni per avere accesso a così tanti privilegi.

Sono proprio questi ultimi a porre l’attenzione sul tema del romanzo di Rielli il quale, attraverso la confessione del protagonista, Marco De Sanctis, ci offre un’analisi spietata del tempo che stiamo vivendo prospettando una società futuribile, senza dubbio distopica, ma che (come è accaduto con altri romanzi distopici) rischia di diventare profetica. 

Marco De Sanctis scopre che  con la sua laurea in Filosofia difficilmente potrà entrare nel mondo del lavoro. Potrebbe tentare con l’insegnamento, ma le liste di attesa sono lunghe e potrebbero trascorrere dei decenni prima di potere conquistare una cattedra. Decide, pertanto, di sfruttare la propria cultura e l’abilità narrativa inventando un blog satirico che, in breve, ottiene un notevole successo. Uno spazio virtuale attraverso il quale denunciare il “male che le macchine, i computer, gli algoritmi stavano facendo all’umanità”.

In breve tempo, però, Marco De Sanctis entra a far parte proprio di quel mondo da cui si sentiva estraneo (si definiva addirittura un luddista!) e fonda una startup, la Before, un’azienda di Big Data, capace di prevedere il comportamento di milioni di consumatori, grazie alla quale si ritroverà ricchissimo, senza però arrendersi (anche se in alcuni momenti potrebbe sembrare il contrario) alla realtà digitale, a quel mondo virtuale che ci vorrebbe tutti burattini manovrabili, senza cultura, né senso critico, cieche e obbedienti pecorelle, pronte a seguire a capo chino il capo branco.

Perché è questo quello che si vede sulle piazze virtuali che tutti, oramai, frequentiamo, mettendo in mostra la nostra vita e pronunciando sermoni su argomenti di cui non sappiamo nulla. Perché  nella società del digitale non contano né conoscenze, né competenze. Un concetto che Rielli ha ben chiaro: 

“Come lo spieghi a un bambino che cresce e che vede che l’insulto è senza conseguenze, che il merito non conta un cazzo, tantomeno il lavoro, il farsi il culo, l’appassionarsi a un progetto, il sapere qualcosa. No, solo l’odio, la superficialità, nessun senso di giustizia”.

Chi scrive sa, per professione, che quanto  appena citato ha solide fondamenta:  purtroppo, la convinzione che l’impegno e  lo studio, rigoroso e approfondito, servano a ben poco, visto che tutto è disponibile (hic et nunc) su internet,  è sempre più radicata. E, ahinoi, non   solo  tra i giovani con scarsa voglia di impegnarsi!  Quei giovani educati, sul modello di molti adulti, a inseguire bisogni mimetici  che non potranno mai soddisfare. Quei giovani che, magari seguendo le indicazioni di un capo popolo, attribuiranno la responsabilità del fallimento alla vittima di turno da sacrificare sull’altare di un dio senza nome. Non è dunque  un caso che il protagonista faccia sua la lezione dell’antropologo René Girard le cui teorie ispirano il “Documento strategico Before” che chiude il romanzo.

Quello che tutti dovrebbero sapere

Crosby è l’insignificante cittadina del Maine, Stato  sull’Oceano Atlantico, che  grazie alla narrazione di Elizabeth Strout (premio Pulitzer nel 2009 ) diviene caleidoscopio di un’umanità provata dalla quotidianità, a tratti drammatica, del vivere.

Al centro   c’è Olive Kitteridge che nonostante la sua presenza sia talora limitata ad un’ immagine evocata dalla memoria di qualche personaggio, può essere considerata la protagonista di quello che, pur presentandosi come una raccolta di racconti, è di fatto un romanzo corale, con numerosi protagonisti. Tra tutti  emerge dando unitarietà alla narrazione Olive Kitteridge, donna apparentemente  impossibile, nervosa e scostante, insegnante di matematica temuta dagli alunni i quali, anche quando la incontreranno (o semplicemente la ricorderanno) da adulti avranno ben presente la paura che incuteva tra i giovani studenti della settima classe (più o meno la seconda media italiana).

Olive Kitteridge è inizialmente la moglie vista attraverso lo sguardo del marito, Henri, affettuoso e gentile, amato da tutti, aggredito verbalmente dalla propria compagna che riversa su di lui tensioni, frustrazioni e nervosismi dopo una giornata di lavoro. È la madre energica, apparentemente poco amorevole (già anziana racconterà che era solita picchiare il figlio), la suocera incattivita dall’arroganza della nuora alla quale, il giorno delle nozze, (dopo avere macchiato con un pennarello un maglione) porta via un reggiseno ed una scarpa che poi abbandonerà nel contenitore della spazzatura di un bar.

 Tuttavia, chi seguendo il mio consiglio procederà nella lettura scoprirà anche tanti aspetti di Olive, una molteplicità di sfumature e sentimenti che la rendono realisticamente donna, con le sue contraddizioni e paure, capace di amare e di odiare, pronta a sottrarsi, ma anche ad offrirsi con generosità. Provata dalla vita, delusa negli affetti, riconoscente nei confronti dell’amore incondizionato del marito Henri, Olive Kitteridge a settantacinque anni scoprirà “che l’amore non va respinto con noncuranza, come un pasticcino posato assieme ad altri su un piatto passato in giro per l’ennesima volta. No, se l’amore era disponibile, lo si sceglieva, o non lo si sceglieva”

Ed è così che Olive Kitteridge si erge  a maestra di vita, ricordando a sé stessa, ma anche a al singolo lettore  

“quello che tutti dovrebbero sapere:

che sprechiamo inconsciamente un giorno dopo l’altro”.

Storia di un delitto

Il  4 marzo del 2026 l’Italia viene turbata da un omicidio, per mesi al centro di discussioni, dibattiti televisivi, interviste ad esperti di cronaca nera e criminologi. Sul quale sono stati spesi fiumi di parole e di aggettivi  insufficienti per rispondere ad un’unica domanda: “perché?”. Certo i tentativi di spiegare le ragioni che hanno spinto due giovani a seviziare, torturare ed uccidere crudelmente un ventenne, che aveva accettato il loro invito sperando di potere intascare qualche centinaio di euro, non sono mancati. Tuttavia, non sono riusciti a chiarire  fino a fondo come si possa arrivare a macchiarsi di un delitto maturato assieme ad un delirio pseudo esistenziale, alimentato da   abuso di cocaina  e alcool.

  Luca Varani aveva vent’anni, era stato adottato da due ambulanti romani, aveva una fidanzata e tanti amici, era apprezzato e amato, ma aveva sempre bisogno di denaro che spendeva giocando alle slot machine. Il bisogno di denaro lo aveva spinto ad accettare l’invito di Manuel Foffo e Marco Prato, attirato dal miraggio di un facile guadagno, concedendo per qualche ora il proprio corpo. Solo che su quel corpo Foffo e Prato hanno infierito con una ferocia inaudita, spinti da un furor tragico che hanno tentato di giustificare (con abile dialettica Prato, con insicurezza emotiva Foffo) mostrandosi come vittime del sistema familiare e sociale che si sarebbe rivelato inadeguato alle loro esigenze esistenziali.

Nicola Lagioia ricostruisce  i giorni trascorsi da Foffo e Prato nell’abitazione del primo e culminati nel delitto di Varani in un reportage rigoroso, con lo  sguardo oggettivo di chi guarda le vite degli altri senza la presunzione del giudizio, ma con profonda Pietas (l’uso dell’iniziale maiuscola non è un refuso), quel sentimento nobile che ci spinge a guardare al dolore con partecipazione e solidarietà, che ci rende consapevoli che potrebbe accadere a chiunque,  anche a noi.

Per questo penso che “La città dei vivi” non sia un libro per gli amanti della cronaca nera, come è stato detto da qualcuno, in maniera semplicistica.

 Ne “La città dei vivi” c’è molto di più: c’è Roma con la sua bellezza e le sue contraddizioni, la Roma dalla quale è difficile fuggire (Nicola Lagioia ci ha provato, senza però riuscirci a lungo), con i suoi scandali, con i topi che cadono giù dai soffitti di uffici pubblici, con i gabbiani attratti dai cumuli d’immondizia. La Roma dei due papi e senza un sindaco. La Roma del Mondo di Mezzo e delle strade in cui perdersi per poi ritrovarsi. La Roma non nuova a delitti efferati (ricorderete il delitto del Circeo!).

Ne “La città dei vivi” c’è lo sguardo di un cronista (abile narratore) che ci guida alla scoperta che non è poi così difficile superare il limite che in un istante possa condurci dall’altra parte e cambiare la nostra vita, radicalmente e per sempre. Come è accaduto a Foffo e Prato. Nicola Lagioia  conosce bene la debolezza di chi si trova sul confine, per esperienza personale che condivide con i suoi lettori, senza alibi né giustificazioni. Lasciandoci una domanda: perché siamo soliti dire “fa che non succeda a me”, mentre non diciamo mai “fa’ che non sia io a farlo”?