Essere donne senza perdere la propria interezza

(pag. 224)

Ci sono libri che arrivano  quasi per caso, non cercati. Forse proprio per questo, come un dono inatteso, si rivelano preziosi e cari perché giungono al momento giusto. Così è “La Sibilla”, biografia di Joyce Lussu, donna modernissima, dalla vita straordinaria, che si è spesa, fino alla fine, per la liberazione politica  e culturale di donne e uomini del Novecento.

Non si può dunque affidare al caso la lettura della Sibilla, soprattutto in questo particolare momento storico,   in cui i sintomi di un rinato nazionalismo accompagnato da conati di autoritarismo, esercitato con disinvolta tracotanza, minacciano quanto Joyce è riuscita a costruire con abnegazione, assieme al marito Emilio Lussu e a decine di donne e uomini, schierati contro i regimi nazifascisti.

Di nobili origini, nata e cresciuta in un ambiente anticonformista, ma culturalmente molto stimolante, Joyce Lussu non si è mai lasciata intimidire dalla violenza fascista, subita insieme alla propria famiglia. Non ha mai perso la determinazione e il coraggio necessari a portare avanti missioni segrete  non solo in Europa, spendendosi per falsificare documenti d’identità e lasciapassare; nel trasporto di documenti e armi;  sottoponendosi ad addestramenti militari, come, se non meglio di un uomo.

 L’incontro con Emilio Lussu, fondatore di Giustizia e Libertà, di cui nel libro è raccontata anche la rocambolesca fuga dal confino di Lipari, non poteva non concretizzarsi in un comune progetto politico ed in una relazione sentimentale, sempre solida, nonostante le difficoltà, le rinunce (Joyce fu costretta ad abortire, rimasta incinta del primo figlio, rischiando la depressione), i rischi. Non poteva non trasformarsi in un rapporto simbiotico, così forte, che, racconta Joyce in “Fronti e frontiere”, uno dei suoi preziosi scritti:

La biografia di Joyce Lussu è anche la storia dell’Italia antifascista e, dopo il 25 aprile, la storia dell’Italia democratica. È soprattutto, e non a caso, la storia delle donne che hanno contribuito alla nascita dell’Italia moderna e democratica. È  anche (o soprattutto) la storia della loro emancipazione per la qual Joyce si è spesa con tutta se stessa. Sebbene bisognerà aspettare gli anni Settanta prima di conoscere il ruolo di queste donne, confinate, dalla storiografia e dalla pubblicistica, in ruoli minori, nelle retrovie. Eppure erano donne “intere”, aggettivo utilizzato da Joyce per raccontare Elisabetta, una donna sarda, conoscitrice di erbe e guaritrice, l’ultima Sibilla barbaricina.

Conta amare non essere amati

Lo sapevate che il battito del cuore ha tanti suoni quanti sono le lingue del mondo? In basco è bun-bun-bun, ma si trasforma in panp-pnap, se batte nervosamente.  In Giappone, dove si svolge la storia al centro del romanzo, un cuore emozionato fa doki doki, ma se è calmo diventa toku toku. In Italia è tu tump. Si potrebbe continuare ancora, ma già questo può bastare per individuare il senso della lunga elencazione  che Laura Imai Messina affida al protagonista: tutti abbiamo un cuore, ma ciascuno lo sente  in maniera diversa.

Shūichi è,  autore   di libri per bambini, che disegna e scrive, decide, dopo la morte della madre di lasciare Tokio per trasferirsi nella casa della propria infanzia a Kamakura alla ricerca del sé che sente perduto. Per anni, ha cercato conferme sui ricordi più brutti della propria infanzia, con decisione negati dalla madre e attribuiti al suo estro narrativo, presente fin  dalla fanciullezza. Shūichi  ha finito con l’arrendersi alle  bugie inventate dalla madre per proteggerlo dal dolore, perché convinta che per essere felici bisogna immaginare la felicità.

Purtroppo, però, l’amore di una madre non può essere sufficiente contro i dolori della vita, soprattutto quelli vissuti da adulti. Lo sa bene Shūichi  costretto a fare i conti con la memoria del suo passato, lontano e recente, che non gli ha risparmiato sofferenze non solo fisiche.    Il ritorno a Kamakura segnerà per Shūichi un nuovo lento inizio, assai diverso da quello che aveva immaginato, grazie a Kenta, un bambino di appena otto anni che gli svelerà molto di sua madre. Ma non solo.

Avrà modo di conoscere Sayaka, incontrata molte volte e subito dimentica, saggia e delicata,capace di mostrare a Shūichi le verità che non riesce a vedere, a condurlo lungo la strada della consapevolezza che il proprio cuore può battere all’unisono con quello di un altro, come in una sinfonia. Fino alla scoperta fatta su “L’isola dei battiti del cuore” dove riuscirà a venire a capo di un piccolo mistero, quasi dimenticato.

Questo  di Laura Imai Messina è un romanzo che si legge d’un fiato: la narrazione procede con la levità di una fiaba, ma riesce a scavare dentro l’animo umano, a cercare significati, a comprendere ciò che rimane del nostro passaggio sulla terra.  Particolarmente interessanti, poi, si rivelano le spiegazioni di alcuni ideogrammi la cui complessità grafica è il risultato di significati profondi che ciascuna parola porta con sé.

Storia di un uomo tra gli uomini

L’aggettivo piccolo nel titolo non deve essere fuorviante. D’altra parte anche Catullo, nel dedicare la propria opera all’amico Cornelio Nepote usò la parola libellum il cui fine non era certo quello di sminuire il valore delle proprie poesie, quanto di dare forma al legame di familiarità con il destinatario del Liber.

Così è per il libro di Tullio Sammito dove l’aggettivo piccolo accostato a destino suona quasi come un ossimoro, visto che l’uomo, pur essendo faber fortunae suae, è ben poca cosa di fronte alla grandezza di eventi, legati dalla casualità, che ne determinano e condizionano l’esistenza.

A segnare il destino dei fratelli Sammito fu la scelta di Turiddu, il padre di Tullio di lasciare il  Friuli e ritornare in Sicilia, facendosi carico di un lungo, e per nulla semplice, viaggio di oltre tre mesi.

Dopo l’8 settembre,   Turiddu, in servizio nella Caserma PIAVE di Palmanova, si era trovato allo sbando ed era finito tra i partigiani sloveni.  Caduto  in un’imboscata di militari tedeschi,  era  stato   fatto prigioniero, insieme ai partigiani, e condannato a morte. Il caso (possiamo chiamarlo destino?) gli aveva permesso di salvarsi e di essere accolto da Silvia, una donna friulana il cui marito era al fronte, e nascosto nel fienile dove aveva conosciuto e amato Maria.     La figlia maggiore di Silvia  era consapevole della forza indissolubile che legava Turiddu a Scicli, ma aveva sognato di potere raggiungerlo in Sicilia per costruire insieme una famiglia.

Le cose, però, andarono diversamente e Maria si ritrovò sola con un figlio da crescere, Silvano, con la determinazione e la fierezza che solo l’amore sa dare.

Il legame di Turiddu con il Friuli, però,  non si spezzò mai ed egli custodì nel proprio cuore il dolore di non riuscire ad essere padre di Silvano verso il quale, seppur lontano ed assente, non mancò mai. Sino alla morte, avvenuta prematuramente, lasciando che anche i tre figli ragusani crescessero senza padre, vittime tutti di quella che, in chiave psicoanalitica, potrebbe chiamarsi “paradosso della predestinazione edipica”.

Questa, almeno, la lettura di Tullio Sammito il quale, partendo da frammenti di memoria, da mezze frasi ascoltate da bambino, dall’immagine del padre in lacrime che nasconde la lettera che sta leggendo, ha investigato, interrogato chi sapeva (lo zio paterno che aveva tenuto i contatti) è riuscito a ricostruire un puzzle e riscrivere la propria storia familiare.

Una storia che non è il racconto dei grandi eventi messi in moto dai potenti, non è, insomma la narrazione di guerre e di odi tra nazioni  che costituiscono la macrostoria. È, piuttosto microstoria, ovvero  il racconto delle vicende di uomini e donne comuni, che subiscono le scelte di chi sta in alto, che soffrono e patiscono, ma che possono anche essere  vincitori. Come nel caso di Turiddu:

“la sua vittoria è rappresentata da noi quattro figli. Senza di noi neppure sarebbero esistiti tutti i nostri discendenti: donne bellissime, uomini speciali. Figli e figlie, donne, ragazze, bambini e bambine, pronti a trasmettere a loro volta la vita”. (pag. 141)

Rinunciare alla vita come punizione per essersi amati

"L'amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nl non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. Facendo, della mia vita, fin dalle sue origini, vita che torna a tutti"

Quello che vi racconto oggi non è un romanzo.

È molto di più.

 È il resoconto di un’indagine svolta – con la disperazione dell’amore di una figlia che comprende e non giudica –   per ricostruire la storia della madre naturale che, negli anni Sessanta, è stata protagonista di un episodio di cronaca su cui i giornali dell’epoca hanno sentenziato sulla base di pregiudizi e perbenismi fondati sull’ignoranza. Ignoranza che non è solo non conoscenza dei fatti, ma soprattutto mancanza di cultura. Un esercizio che oggi, non solo la stampa, ma anche i social esercitano con superficialità, come nel caso della vicenda del piccolo Enea.

Perché, come oggi il piccolo Enea, nel 1965 Maria Grazia Calandrone venne abbandonata da mamma Lucia come estremo atto di amore, nella ferma convinzione che rinunciando all’amore più grande della sua dolorosa esistenza, la figlia, avrebbe potuto permetterle di vivere quella vita che le era stata negata.

“Dove non mi hai portata” è una storia devastante. La protagonista è  una donna, figlia “indesiderata” perché la quarta femmina di una famiglia contadina: giunta al posto del maschio tanto atteso, fin da piccola deve imparare che “prendere la vita è muoversi da soli e poi durare”.  Quella di Lucia è la storia di tante donne del sud contadino del dopoguerra: non possono studiare perché devono aiutare in casa e nei campi. Non sono libere di amare: il marito viene imposto dal padre, con la violenza e la minaccia: i genitori

“legano le ribelli a un albero coperto di formiche

e le lasciano lì tutta la notte,

per piegare la loro volontà a matrimoni indesiderati”.

Con Lucia non sarà necessario arrivare a tanto, nonostante faccia “i numeri del circo” perché non vuole sposare Luigi, “un infelice e un obbediente”, incapace di scegliere e decidere, manovrato dai propri familiari  i carnefici di Lucia. Negli anni del matrimonio, mai consumato, Lucia sarà  trattata come una schiava: picchiata e costretta a lavorare nei campi (mentre Luigi dorme, giorno e notte), rimane senza cibo per giorni. Tutti in paese sanno, anche i genitori di Lucia, ma nessuno fa niente, perché, con le nozze, la moglie diventa proprietà del marito.

Fino a quando, Lucia incontra Giuseppe, “un uomo capace di sognare insieme a lei il sogno semplice del futuro”. Conosce l’amore, da cui nascerà  Maria Grazia, figlia della colpa e del tradimento, all’epoca considerato reato penale. Lucia e Giuseppe sono costretti a lasciare il paese e raggiungere Milano, sperando di potere costruire una famiglia.  Un sogno impossibile da realizzare e che farà maturare nei due amanti la decisione di rinunciare alla figlia e suicidarsi nel Tevere, pagando così “l’orgoglio di  essersi amati”, in una società che giudica e condanna perché

“per quanto si desideri la gioia,

si ha la ferma coscienza di essere

un’irrisoria particella del gran corpo sociale”.

A proposito dell’amore

“Ho passato l’infanzia e l’adolescenza a fare l’innamorata: sognavo la mia vita futura leggendo romanzi rosa, e gli unici film che ritenevo degni di nota erano quelli che mettevano in scena una storia d’amore più o meno complicata e felice, sempre passionale. Da ragazza ho continua a cercare il grande amore: fare l’amante non mi interessava nemmeno allora; l’amore senza legami lo trovavo insulso. Eppure, dopo aver avuto i miei figli, non sono mai passata alla tappa successiva. non ho mai cambiato categoria per diventare una madre. Così, pur facendo del mio meglio, la maggior parte del tempo sono troppo occupata a fare l’innamorata per essere una brava madre”.

(Pag.114)

Chi mi segue lo sa: non parlo mai di libri che non mi sono piaciuti, sebbene nel mio nuotare nel mare magnum dell’editoria, in particolare di quella italiana, ne incontri, fin troppo spesso,   brutti e scritti male. Tuttavia,  se parlo di “Mio marito” non significa che si tratti di un romanzo che ho amato o che mi sia particolarmente piaciuto. Anzi, ti devo confessare, caro lettore del mio blog, che dopo averne completato la lettura, già da parecchi giorni, ho provato un profondo senso di delusione assieme ad una acuta angoscia. Ti starai chiedendo, certamente, la ragione.

Si tratta, indubbiamente, di un libro scritto bene, leggibile e, almeno inizialmente, divertente. Se con fosse che, proseguendo nella lettura, pagina dopo pagina, cominci a sospettare che l’io narrante mostra i segni di una grave psicosi che andrebbe curata con metodi differenti da quelli che di fatto applica.

Scopri una donna che (pur avendo tutto: bellezza, ricchezza, cultura

– insegna inglese, part time, e svolge la professione di traduttrice – un marito elegante, raffinato, bello, due figli straordinari) è di fatto una psicotica, incapace di amare (nonostante le continue e ossessive dichiarazioni d’amore nei confronti del marito), egoista, fedifraga.

Certe trovate, che all’inizio potrebbero sembrare simpatiche, espressione di ordine sistematico (i quaderni tematici colorati) si rivelano per quello che sono: prove tangibili di una psicosi pericolosa ed inquietante. Ignoro, non ho voluto approfondire, se vi siano elementi autobiografici (qualcuno certamente), ma mi ha disturbata molto l’immagine del matrimonio che vien fuori alla fine del romanzo. Perché niente è mai come appare.

La conclusione, infatti, si rivela l’elemento devastante dell’intero romanzo: il matrimonio, direi meglio, più in generale, la relazione di coppia diviene una farsa, perché fondata sulla recita di ruoli che nascondono la reale natura dei protagonisti, la dipendenza psicologica, il godimento per punizioni e umiliazioni continue.

Conoscere per Essere: la Filosofia

“La filosofia è un inarrestabile viaggio di crescita individuale e collettivo, al termine del quale potrebbe sorgere in noi il desiderio di diventare artefici del nostro destino” (pag. 22)

Primum esse, deinde philosophari. Il vecchio adagio latino dovrebbe diventare la stella polare della nostra epoca in cui molti sedicenti maestri, complici anche i social network che danno a chiunque la possibilità di esprimersi su tutto, si ergono a lettori critici, pronti a philosophari, manifestando, però, il vuoto umano e culturale di cui sono portatori. Per essere filosofi, però,  bisogna prima essere e per essere è necessario conoscere, abbracciare un Sapere che non è mai finito, che è sempre rimesso in discussione, secondo l’insegnamento di Socrate: so di non sapere. Unica certezza data all’uomo saggio che ricerca la verità. Una certezza che, oggi più che mai, epoca di sofisti del nulla, come dicevamo, sarebbe veramente rivoluzionaria e porterebbe alla Filosofia, intesa come conoscenza e studio, secondo l’insegnamento degli antichi filosofi che furono astronomi, filosofi, matematici, geografi…  ricercatori e portatori di conoscenza e per questo temuti dal potere che li perseguitarono e ne decretarono la morte. Come Ipazia, Anassimandro, Epicuro, Olympe de Gouges, Marx  alcuni dei filosofi di cui il prof. Saudino ricostruisce la vicenda umana e il pensiero nel suo volume di indubbio successo, considerate il numero di edizioni già date alle stampa.

Il Prof. Saudino a Ragusa lo scorso giugno,
durante l’interessante e partecipata conversazione sul suo libro
che ho avuto il privilegio di presentare.

Il successo del Prof. Saudino e, naturalmente, della Filosofia potrebbe sembrare una contraddizione visto che , secondo il detto popolare che l’autore ha ben presente, la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale. Parole che sembrano perfette per una  società super tecnologica, nella quale sembrano prevalere le scienze applicate, dove bisogna produrre, dove le multinazionali promuovono progetti finalizzati a distruggere la scuola del sapere nel nome di una scuola di competenze che in maniera altisonante sembrano talora orientati a distruggere la Conoscenza che rende liberi e sviluppa il Libero Pensiero (oltre alle competenze!).

 Sostenere che la filosofia non serve a nulla è, da parte del Prof. Saudino, ma anche della vostra lettrice,    una provocazione perché tutti noi siamo coscienti del fatto che la Filosofia oltre ad essere  “ il sapere più nobile”, – come già aveva detto Aristotele –  rende veramente liberi in quanto (sono queste le meraviglie che ci vengono rivelate nella prima parte del libro) serve a creare problemi, a fondare scelte, immaginare altre realtà, criticare il potere, prepararsi a morire, interrogarsi sulla vita. Insomma, ci rende Uomini e ci distingue dai bruti, perché solo l’Essere Umano, per quanto sappiamo ad oggi, è capace di interrogarsi, conoscere, avere consapevolezza di sé e del mondo.

Niente resterà impunito

Il racconto doloroso di una generazione perduta

Alberto Boscolo è uno studente, uno come tanti:  dopo la maturità (superata con il massimo dei voti) si è iscritto alla Facoltà di Lettere e Filosofia alla Statale di Milano e, come tanti giovani, si è lasciato affascinare dal sogno  di un mondo in cui non ci siano sfruttati e sfruttatori . Un sogno che in pochissimo tempo lo porta a superare i limiti della legalità , aderendo alle Brigate Rosse e partecipando  (in maniera attiva e convinta) alla lotta armata.

Alessandro Bertante si fa da parte per dare voce direttamente al suo protagonista, lasciando che sia lui a ricostruire il percorso che segna la trasformazione dello “studente sbarbato della Statale”, impegnato nel volantinaggio  davanti alla fabbrica della Sit Simens, nel  complice e ideatore (accanto a Renato Curcio) di feroci azioni criminali firmati dalle Brigate Rosse.

Il racconto  ci conduce nell’Italia degli anni Settanta tra giovani che convivono con i loro figli in case occupate, condividendo il cibo e gli ambienti, con i nuovi arrivati, spesso sconosciuti. Giovani che avevano fatto loro il mito di un Unione sovietica di fatto  mai esistita:

“Inneggiavano a Lenin, a Mao e a Stalin 

ma facevano già parte del nemico

e  alcuni dei dirigenti più scaltri

lo sapevano con certezza ma gli andava bene lo stesso” .

Il passaggio alla lotta armata, che ha segnato la storia del nostro Paese in maniera ancora oggi indelebile, scaturisce dall’attentato di Piazza Fontana, letto già allora come la prima strage di Stato, e dal presunto suicidio dell’anarchico Pinelli. Una lettura, quella del suicidio, immediatamente negata dal gruppo di Bertante per il quale lo Stato “ammazzava impunemente”. Ragione per cui si diffuse la convinzione in   “molti compagni che non era più tempo di farsi uccidere senza combattere”.

Quello che accadde successivamente (rapine sanguinarie per finanziare il movimento, sequestri lampo attentati dimostrativi  fino al sequestro Moro) è storia  condivisa. Come sia maturato tutto ciò, quale sia stato il costo pagato da giovani come Alberto Boscolo viene raccontato in un misto di storia ed invenzione da Alessandro Bertante che , utilizzando fonti e documenti storici, ricostruisce con l’estro del narratore, il percorso di giovani come Alberto Boscolo, un’intera generazione bruciata da un’ideologia, spesso non adeguatamente supportata:

“E poi c’ero io che non avevo una visione ideologica precisa,

ma mi lasciavo trascinare dalla voracità dei vent’anni e dall’urgenza dell’azione …

cercando di vivere la propaganda armata come momento politico principale

e, in qualche modo fondante, della mia visione rivoluzionaria”.

Animali sociali o monadi narcisiste?

Per natura noi esseri umani – donne e uomini che vivono nello spazio  e nel tempo – siamo animali sociali. Come già aveva affermato Aristotele nel IV secolo a.C., costruiamo la nostra personalità, il nostro essere, nella relazione con i nostri simili, nel confronto con gli altri; col vivere a contatto con il mondo naturale,  nella sua totalità e complessità. La nostra felicità – non l’appagamento becero che nasce dall’affermazione sterile di un sé capriccioso e volubile – scaturisce dalla pienezza della vita che è possibile quando ci incontriamo e ci riconosciamo, vicendevolmente pur nelle differenze, nella  condivisione di obiettivi comuni da  realizzare insieme. È, infatti, la relazione con gli altri che rende attiva la mente e l’inconscio; perché nel rapporto con gli altri scaturiscono pensieri ed emozioni, quanto, cioè, ci distingue dagli altri viventi.

Il “malessere del mondo moderno” – analizzato scientificamente  da Paolo Inghilleri – sarebbe, dunque, figlio dell’isolamento cui conduce la contemporaneità, fatta di relazioni virtuali che spesso, sempre più spesso e per un numero sempre più ampio di individui  soprattutto giovani, hanno sostituito le relazioni sociali. Vero è che per molti i rapporti virtuali sono espressione di socialità, ma si tratta di un errore che può avere conseguenze negative ed essere causa di un disagio psichico che si manifesta con ansia e depressione, ma può condurre anche a malesseri più profondi. È certo, infatti, che la socialità non può essere limitata a relazioni a distanza, virtuali, mediate dalla tecnologia, che riducono la società a  “somma di monadi narcisiste”  (per usare l’espressione di Vittorio Gallese che Inghilleri cita nel proprio saggio, pag. 47).

Quella umana, tuttavia, è una macchina perfetta, capace di auto guarirsi, almeno dal disagio psicologico lieve: dopo avere analizzato le cause del malessere che caratterizza il nostro tempo e i fattori che ci proteggono, Inghilleri individua i “meccanismi psicologici che abbiamo già a disposizione” e che funzionano nella misura in cui acquisiamo la consapevolezza che dal nostro agire dipende la nostra salute fisica e mentale.

Viandanti verso la nostra Itaca

Terramarina è la meta, come l’Itaca di Ulisse del mito antico, a cui ogni uomo tende. E, come per il mito antico, bisogna augurarsi che la strada (come ha scritto il poeta, greco anche lui, Kavafis) sia lunga, perché bisogna arrivarci carichi  di vita e di esperienze (proprio come Ulisse), “ricco dei tesori accumulati per la strada”.

Terramarina è il secondo romanzo di quella che diventerà la trilogia della “cricca della Tabbacchera”, donna d’acciaio, bella e forte, determinata e caparbia, coraggiosa e indipendente.  Sindaca Scassacoglioni (secondo l’epiteto che uomini dei palazzi che contano, dove il malaffare è di casa, le hanno cucito addosso e che lei indossa con orgogliosa consapevolezza) che vuole fare la rivoluzione , “cambiare il mondo a colpi di poesia”, con l’Amurusanza (che è anche il titolo del primo romanzo)  termine che racchiude la parola amore, ma che va oltre ed a cui aggiunge una dimensione che è fatta di accoglienza, solidarietà, apertura:

Parole di fuoco, buttate giù per raccontare quella che si presenta come una fiaba di Natale, con una neonata (chiamata Luce, “bambina di luce giunta in quella casa a dissolvere il lutto e a portare la gioia”), partorita per strada sotto la neve, da una madre disperata per la quale non sembra esserci nemmeno una stalla con la mangiatoia.

“a far capire che porto siamo, signori miei,

porto che si fa madre,

che accoglie e non rigetta,

che apre e non si chiude,

che abbraccia e sfama a dispetto dei canazzi

che ringhiano di chiusure e di cesure e di leggi a sfratto,

intanto che la vita se la gioca

con la morte – e perde – in mezzo a un mare assassino”.

Con Tea Ranno, a Ragusa per presentare il suo libro

Nel  costruire il suo racconto fiabesco, però, Tea Ranno non ignora la realtà del suo tempo (che è anche il nostra) e non distoglie lo sguardo da quel mare dove navi di disperati, fuggiti dalla violenza, dalla guerra, dalla fame, aspettano di scendere e toccare una terra che è sempre stata luogo di accoglienza, di popoli diversi, di genti venute per conquistare, ma anche per lasciarsi conquistare.

Simbolo di questa terra diventa la casa di Agata la  Tabbacchera che agli amici aveva detto e ridetto “Sula lassatimi!”. Perché in quella notte di Natale lei aveva bisogno di solitudine, per fare quattro conti con se stessa. Il caso deciderà diversamente e la sua casa, buia e triste, nella cui solitudine avrebbe voluto annegare, si trasformerà in porto d’accoglienza, illuminata come un faro nella notte, sfavillante di Amurusanza.

Originaria di Melilli, a cui è legata indissolubilmente, nonostante da un quarto di secolo viva a Roma, Tea Ranno è oggi forse una delle voci più autorevoli della Sicilia. Una Sicilia che si fa mito, con le bellezze e le brutture che ne hanno deturpato il paesaggio e l’anima, col suo essere “luce e lutto” (come diceva Bufalino), che Tea Ranno riesce a mettere sulla pagina, con profondità e sentimento, con una scrittura che si fa poesia nella quale si è riservata un cantuccio, lei la “signora con il taccuino” che da Roma torna nella terra dei padri, alla ricerca delle radici, per ascoltare storie, anche di uomini e fatti lontani, ma che nelle sue pagine diventano emblema dell’ esistere al di là dello spazio e del tempo.

Il Potere Taumaturgico della scrittura

Premio Campiello 2022

L’autore, appena venticinquenne, fa il suo ingresso nel mondo letterario con un romanzo che, come nelle favole della tradizione, ha come protagonisti gli animali, con i vizi, le virtù, i sentimenti degli uomini. Disperati e speranzosi;  appassionati e crudeli;  devastati dalla vita, ma capaci di guardare oltre e reinventarsi;  sognatori e realisti proprio come gli uomini. I personaggi di questa storia sono faine, cani, maiali, tassi, ricci, volpi che allegoricamente ci rappresentano e ci dicono cosa siamo e cosa possiamo essere.

L’io narrante e protagonista è una faina, Archy:  il padre è stato assassinato da un umano che lo ha sorpreso a rubare, lasciando la moglie e i figli nella disperazione di un inverno che rende difficile, se non impossibile, cacciare. Il bisogno lascia poco spazio all’amore materno e agli affetti familiari, consumati dalla necessità di sfamare la nidiata, trascurando, chi particolarmente debole, sembra avere poche possibilità di sopravvivenza.

Così, quando, Archy, cadendo da un albero nel tentativo di portare a casa delle uova di uccello, rimarrà zoppo, sarà ceduto dalla mamma  alla  vecchia volpe usuraio. Ha inizio per Archy la sua nuova vita, il primo di tanti cambiamenti che caratterizzeranno la sua esistenza:

“La vecchia volpe decise di insegnarmi tutto quello che sapeva”.

In poco tempo, nonostante i maltrattamenti, Archy diventa l’apprendista della volpe che, intuendo di essere oramai alla fine della propria vita, desidera un erede a cui lasciare i beni accumulati in anni di usura violenta. In particolare, però, la volpe insegna ad Archy a  scrivere, a leggere ed interpretare un libro, il Libro, una bibbia rubata negli anni della giovinezza.

Alla lettura della bibbia la volpe ha dedicato parte della propria vita, convincendosi  di essere “un figlio di Dio” e decidendo di raccontare la propria esperienza, una vita di rapina e violenza con cui fare i conti, prima di superare la soglia dell’esistenza per andare verso un oltre di cui non si ha consapevolezza.

Il romanzo, così, supera i confini della favola, per diventare un libro sulla scrittura, su questa capacità, tutta umana, che ci rende  “figli di Dio”, regalandoci l’eternità, come dice Archy:

“mi fece riflettere sul potere della scrittura, quanto fosse immune al tempo”.

Per cui, oramai, vecchio, stanco e solo, disperatamente solo, Archy decide “che l’unico compromesso prima di sparire era raccontarmi”, fino a scoprire  il potere taumaturgico della scrittura:

“Più scrivo, più l’ossessione della morte si fa leggera.

La sconfiggo ad ogni pagina, specchiandomi nel colore, nelle linee che traccio.

Dio porterà la mia anima chissà dove, disperderà il mio corpo nella terra,

ma i miei pensieri rimarranno qui, senza età, salvi dai giorni e dalle notti”.

Affiderà il suo racconto autobiografico, insieme con la bibbia avuta in dono dalla volpe, al suo ultimo amico, Klaus, come un tesoro prezioso, da tenere sempre con sé:

“Ti diranno tante verità, ti faranno male,

ma non potranno mai ingannarti su quello che sei,

su quello che siamo”.