Storia di un uomo tra gli uomini

L’aggettivo piccolo nel titolo non deve essere fuorviante. D’altra parte anche Catullo, nel dedicare la propria opera all’amico Cornelio Nepote usò la parola libellum il cui fine non era certo quello di sminuire il valore delle proprie poesie, quanto di dare forma al legame di familiarità con il destinatario del Liber.

Così è per il libro di Tullio Sammito dove l’aggettivo piccolo accostato a destino suona quasi come un ossimoro, visto che l’uomo, pur essendo faber fortunae suae, è ben poca cosa di fronte alla grandezza di eventi, legati dalla casualità, che ne determinano e condizionano l’esistenza.

A segnare il destino dei fratelli Sammito fu la scelta di Turiddu, il padre di Tullio di lasciare il  Friuli e ritornare in Sicilia, facendosi carico di un lungo, e per nulla semplice, viaggio di oltre tre mesi.

Dopo l’8 settembre,   Turiddu, in servizio nella Caserma PIAVE di Palmanova, si era trovato allo sbando ed era finito tra i partigiani sloveni.  Caduto  in un’imboscata di militari tedeschi,  era  stato   fatto prigioniero, insieme ai partigiani, e condannato a morte. Il caso (possiamo chiamarlo destino?) gli aveva permesso di salvarsi e di essere accolto da Silvia, una donna friulana il cui marito era al fronte, e nascosto nel fienile dove aveva conosciuto e amato Maria.     La figlia maggiore di Silvia  era consapevole della forza indissolubile che legava Turiddu a Scicli, ma aveva sognato di potere raggiungerlo in Sicilia per costruire insieme una famiglia.

Le cose, però, andarono diversamente e Maria si ritrovò sola con un figlio da crescere, Silvano, con la determinazione e la fierezza che solo l’amore sa dare.

Il legame di Turiddu con il Friuli, però,  non si spezzò mai ed egli custodì nel proprio cuore il dolore di non riuscire ad essere padre di Silvano verso il quale, seppur lontano ed assente, non mancò mai. Sino alla morte, avvenuta prematuramente, lasciando che anche i tre figli ragusani crescessero senza padre, vittime tutti di quella che, in chiave psicoanalitica, potrebbe chiamarsi “paradosso della predestinazione edipica”.

Questa, almeno, la lettura di Tullio Sammito il quale, partendo da frammenti di memoria, da mezze frasi ascoltate da bambino, dall’immagine del padre in lacrime che nasconde la lettera che sta leggendo, ha investigato, interrogato chi sapeva (lo zio paterno che aveva tenuto i contatti) è riuscito a ricostruire un puzzle e riscrivere la propria storia familiare.

Una storia che non è il racconto dei grandi eventi messi in moto dai potenti, non è, insomma la narrazione di guerre e di odi tra nazioni  che costituiscono la macrostoria. È, piuttosto microstoria, ovvero  il racconto delle vicende di uomini e donne comuni, che subiscono le scelte di chi sta in alto, che soffrono e patiscono, ma che possono anche essere  vincitori. Come nel caso di Turiddu:

“la sua vittoria è rappresentata da noi quattro figli. Senza di noi neppure sarebbero esistiti tutti i nostri discendenti: donne bellissime, uomini speciali. Figli e figlie, donne, ragazze, bambini e bambine, pronti a trasmettere a loro volta la vita”. (pag. 141)

L’insostenibile peso della leggerezza

A proposito di Calvino, nel centenario della nascita

Il Calvino metanarratore

“Una notte d’inverno un viaggiatore”

Il realismo del fantastico

Il paese dei ladri

C’era un paese dove erano tutti ladri.

La notte ogni abitante usciva, coi grimaldelli e la lanterna cieca, e andava a scassinare la casa di un vicino. Rincasava all’alba e trovava la casa svaligiata.

E così tutti vivevano in concordia e senza danno, poiché l’uno rubava all’altro, e questo a un altro ancora e così via, finché non si rubava a un ultimo che rubava al primo. Il commercio in quel paese si praticava solo sotto forma d’imbroglio e da parte di chi vendeva e da parte di chi comprava. Il governo era un’associazione a delinquere ai danni dei sudditi, e i sudditi dal canto loro badavano solo a frodare il governo. Così la vita proseguiva senza inciampi, e non c’erano né ricchi né poveri. Ora, non si sa come, accadde che nel paese di venisse a trovare un uomo onesto. La notte, invece di uscirsene col sacco e la lanterna, stava in casa a fumare e a leggere romanzi. Venivano i ladri, vedevano la luce accesa e non salivano.

Questo fatto durò per un poco: poi bisognò fargli comprendere che se lui voleva vivere senza far niente, non era una buona ragione per non lasciar fare agli altri. Ogni notte che lui passava in casa, era una famiglia che non mangiava l’indomani. Di fronte a queste ragioni l’uomo onesto non poteva opporsi. Prese anche lui a uscire la sera per tornare all’alba, ma a rubare non ci andava. Onesto era, non c’era nulla da fare. Andava fino al ponte e stava a veder passare l’acqua sotto. Tornava a casa, e la trovava svaligiata.

In meno di una settimana l’uomo onesto si trovò senza un soldo, senza di che mangiare, con la casa vuota. Ma fin qui poco male, perché era colpa sua; il guaio era che da questo suo modo di fare ne nasceva tutto un cambiamento. Perché lui si faceva rubare tutto e intanto non rubava a nessuno; così c’era sempre qualcuno che rincasando all’alba trovava la casa intatta: la casa che avrebbe dovuto svaligiare lui. Fatto sta che dopo un poco quelli che non venivano derubati si trovarono ad essere più ricchi degli altri e a non voler più rubare. E, d’altronde, quelli che venivano per rubare in casa dell’uomo onesto la trovarono sempre vuota; così diventavano poveri. Intanto, quelli diventati ricchi presero l’abitudine anche loro di andare la notte sul punte, a veder l’acqua che passava sotto. 

Questo aumentò lo scompiglio, perché ci furono molti altri che diventarono ricchi e molti altri che diventarono poveri.

Ora, i ricchi videro che ad andare la notte sul ponte, dopo un po’ sarebbero diventati poveri. E pensarono: – Paghiamo dei poveri che vadano a rubare per conto nostro -. Si fecero i contratti, furono stabiliti i salari, le percentuali: naturalmente sempre ladri erano, e cercavano di ingannarsi gli uni con gli altri. Ma, come succede, i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. 

C’erano dei ricchi così ricchi da non avere più bisogno di rubare per continuare a esser ricchi. Però se smettevano di rubare diventavano poveri perché i poveri li derubavano. Allora pagarono i più poveri dei poveri per difendere la roba loro dagli altri poveri, e così istituirono la polizia, e costruirono le carceri.

In tal modo, già pochi anni dopo l’avvenimento dell’uomo onesto, non si parlava più di rubare o di esser derubati, ma solo di ricchi e poveri; eppure erano sempre tutti ladri. Di onesti c’è stato solo quel tale ed era morto subito, di fame.

Un inetto che si erge a divinità

“La vita non appare priva di significato, semmai ne è così ricca che il suo significato deve essere costantemente ucciso per il bene della coesione e della comprensione”.

Ci sono romanzi che si limitano a raccontare vite, più o meno reali. Poi ci sono romanzi che raccontano la Vita, anche quando i protagonisti appaiono lontani, non solo geograficamente, dal lettore.   È il caso di “Karoo” il romanzo postumo di Steve Tesich (mancato nel 1996), pubblicato negli Stati Uniti nel ’98 e  in Italia da Adelphi soltanto nel 2014.

Steve Tesich, serbo naturalizzato statunitense,   sceneggiatore, premiato con l’Oscar, drammaturgo e scrittore, ci regala un personaggio disturbante,  a tratti sgradevole e odioso, ma fortemente umano. Saul Karoo, disgustosamente ricco, grazie alla propria abilità di “scribacchino”, è consapevole di non essere un artista. Da tempo ha messo da parte il sogno di scrivere un proprio romanzo,  tuttavia a Hollywood   è lo “scriptor doctor” più ricercato e retribuito,  perché riesce a trasformare un film (anche di grande valore artistico) in una pellicola da botteghino.

Saul è consapevole dei proprie manchevolezze e dei propri limiti , sia professionali che personali, ma come un inetto si lascia vivere, preferendo la continuità di un’esistenza, comunque triste e deludente, piuttosto che rimediare agli errori ben noti. Fino a quando non accade qualcosa che lo spinge a diventare artefice del proprio destino, ma che lo rende (novello Ulisse) colpevole di Hybris, perché non è possibile decidere  per gli altri. Anche quando si tratta delle persone amate e si vuole agire per la loro felicità.

 Con leggerezza, solo apparente, però, e ironia  per mezzo di  “Karoo” Steve Tesich ci racconta la vita con il suo carico di illusioni, delusioni, sogni irrealizzati, errori, vigliaccherie, egoismi (l’elenco potrebbe proseguire, ancora, ma non voglio togliere al lettore il piacere della scoperta, né risultare tediosa). 

Fino alla tragedia che l’autore abilmente lascia intravvedere nel corso della narrazione, insinuando un sospetto che il lettore vorrebbe scoprire infondato e che condurrà anche ad altro, ad un dolore che non concede vie di fuga né riscatto.

Gli inganni della memoria e le menzogne dell’infanzia

La formazione di molte donne a partire dalla generazione degli anni Cinquanta è avvenuta per sottrazione. Fin da bambine hanno lavorato per evitare di somigliare alle donne loro vicine, per liberarsi dall’iniquità cui  quelle donne erano costrette dal ruolo di mogli e madri, percepite come vittime infelici di un padre e marito visto come il  carnefice e, in quanto tale, indesiderato e poco amato. Così è stato per Donata, la protagonista de “La memoria del cielo” .

Per tutta l’infanzia Donata ha nutrito e cullato dentro di sé la convinzione, frutto di fantasia, di essere arrivata “dal mondo della luna” per salvare Teresa , di averla scelta come madre “per  andarle a dire, nascendo, che non tutto è così malvagio” e per liberarla dalla casa prigione in cui trascorre giornate intere a confezionare abiti per “le signore”.

Ormai adulta, Donata cerca di ricostruire attraverso la memoria gli anni della propria infanzia e adolescenza, provando a  mettere ordine ai ricordi, nel tentativo di ricostruire una verità impossibile da trovare perché: “I ricordi dell’infanzia non sono nostri: se nessuno ce li regala, non esistono. Per questo l’infanzia è una colossale menzogna, che raccontiamo prima di tutto a noi stessi”. (pag. 41)

Fin dai primissimi capitoli del romanzo, dunque, sembra che Donata voglia metterci in guardia sul valore da dare al suo racconto e sulla credibilità del suo narrare, fino a svelarci quanto i ricordi possano risultare ingannevoli, perché imprecisi se non addirittura sbagliati:

“Ce li portiamo tutta la vita dentro come se fossero tesori e poi?

Hanno la stessa sostanza della fantasia.

Assomigliano alle storie che c’inventiamo, né più né meno”. (pag. 171)

Donata adulta, quindi, sentirà il bisogno di apprendere il reale svolgimento dei fatti vissuti dalla propria famiglia per conoscere veramente  quel padre che aveva sempre rifiutato e condannato perché causa dell’infelicità di Teresa:

“Mi fu chiaro che dovevo difendere mia madre

anche dall’uomo che aveva sposato…” (pag. 80).

Attraverso i ricordi della fanciullezza, per quanto ingannevoli, Donata racconta i  cambiamenti dell’Italia del dopoguerra, l’Italia del boom economico reso possibile da quella che chiama “epica del sacrificio”, fondata su un eroismo fatto da  rinunce e privazioni che, certamente a lei erano risparmiate (per la bambina c’erano sempre a tavola la carne e il pesce), ma che non accettava. O meglio, la piccola Donata sentiva il bisogno del superfluo, di cui, sostiene “Non è vero che ne possiamo fare a meno”, nella convinzione che  “Concedersi le cose inutili è come fare un passo laterale e andarsene per i viottolini di campagna”. (pag. 119)  Grazie a quelle rinunce, però, oltre all’appartamento  i genitori di Donata poterono acquistare la lavatrice che permise a Teresa di liberarsi fatica del bucato a mano, pur non salvandola dal lavoro di sarta.

Rinunciare alla vita come punizione per essersi amati

"L'amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nl non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. Facendo, della mia vita, fin dalle sue origini, vita che torna a tutti"

Quello che vi racconto oggi non è un romanzo.

È molto di più.

 È il resoconto di un’indagine svolta – con la disperazione dell’amore di una figlia che comprende e non giudica –   per ricostruire la storia della madre naturale che, negli anni Sessanta, è stata protagonista di un episodio di cronaca su cui i giornali dell’epoca hanno sentenziato sulla base di pregiudizi e perbenismi fondati sull’ignoranza. Ignoranza che non è solo non conoscenza dei fatti, ma soprattutto mancanza di cultura. Un esercizio che oggi, non solo la stampa, ma anche i social esercitano con superficialità, come nel caso della vicenda del piccolo Enea.

Perché, come oggi il piccolo Enea, nel 1965 Maria Grazia Calandrone venne abbandonata da mamma Lucia come estremo atto di amore, nella ferma convinzione che rinunciando all’amore più grande della sua dolorosa esistenza, la figlia, avrebbe potuto permetterle di vivere quella vita che le era stata negata.

“Dove non mi hai portata” è una storia devastante. La protagonista è  una donna, figlia “indesiderata” perché la quarta femmina di una famiglia contadina: giunta al posto del maschio tanto atteso, fin da piccola deve imparare che “prendere la vita è muoversi da soli e poi durare”.  Quella di Lucia è la storia di tante donne del sud contadino del dopoguerra: non possono studiare perché devono aiutare in casa e nei campi. Non sono libere di amare: il marito viene imposto dal padre, con la violenza e la minaccia: i genitori

“legano le ribelli a un albero coperto di formiche

e le lasciano lì tutta la notte,

per piegare la loro volontà a matrimoni indesiderati”.

Con Lucia non sarà necessario arrivare a tanto, nonostante faccia “i numeri del circo” perché non vuole sposare Luigi, “un infelice e un obbediente”, incapace di scegliere e decidere, manovrato dai propri familiari  i carnefici di Lucia. Negli anni del matrimonio, mai consumato, Lucia sarà  trattata come una schiava: picchiata e costretta a lavorare nei campi (mentre Luigi dorme, giorno e notte), rimane senza cibo per giorni. Tutti in paese sanno, anche i genitori di Lucia, ma nessuno fa niente, perché, con le nozze, la moglie diventa proprietà del marito.

Fino a quando, Lucia incontra Giuseppe, “un uomo capace di sognare insieme a lei il sogno semplice del futuro”. Conosce l’amore, da cui nascerà  Maria Grazia, figlia della colpa e del tradimento, all’epoca considerato reato penale. Lucia e Giuseppe sono costretti a lasciare il paese e raggiungere Milano, sperando di potere costruire una famiglia.  Un sogno impossibile da realizzare e che farà maturare nei due amanti la decisione di rinunciare alla figlia e suicidarsi nel Tevere, pagando così “l’orgoglio di  essersi amati”, in una società che giudica e condanna perché

“per quanto si desideri la gioia,

si ha la ferma coscienza di essere

un’irrisoria particella del gran corpo sociale”.

A proposito dell’amore

“Ho passato l’infanzia e l’adolescenza a fare l’innamorata: sognavo la mia vita futura leggendo romanzi rosa, e gli unici film che ritenevo degni di nota erano quelli che mettevano in scena una storia d’amore più o meno complicata e felice, sempre passionale. Da ragazza ho continua a cercare il grande amore: fare l’amante non mi interessava nemmeno allora; l’amore senza legami lo trovavo insulso. Eppure, dopo aver avuto i miei figli, non sono mai passata alla tappa successiva. non ho mai cambiato categoria per diventare una madre. Così, pur facendo del mio meglio, la maggior parte del tempo sono troppo occupata a fare l’innamorata per essere una brava madre”.

(Pag.114)

Chi mi segue lo sa: non parlo mai di libri che non mi sono piaciuti, sebbene nel mio nuotare nel mare magnum dell’editoria, in particolare di quella italiana, ne incontri, fin troppo spesso,   brutti e scritti male. Tuttavia,  se parlo di “Mio marito” non significa che si tratti di un romanzo che ho amato o che mi sia particolarmente piaciuto. Anzi, ti devo confessare, caro lettore del mio blog, che dopo averne completato la lettura, già da parecchi giorni, ho provato un profondo senso di delusione assieme ad una acuta angoscia. Ti starai chiedendo, certamente, la ragione.

Si tratta, indubbiamente, di un libro scritto bene, leggibile e, almeno inizialmente, divertente. Se con fosse che, proseguendo nella lettura, pagina dopo pagina, cominci a sospettare che l’io narrante mostra i segni di una grave psicosi che andrebbe curata con metodi differenti da quelli che di fatto applica.

Scopri una donna che (pur avendo tutto: bellezza, ricchezza, cultura

– insegna inglese, part time, e svolge la professione di traduttrice – un marito elegante, raffinato, bello, due figli straordinari) è di fatto una psicotica, incapace di amare (nonostante le continue e ossessive dichiarazioni d’amore nei confronti del marito), egoista, fedifraga.

Certe trovate, che all’inizio potrebbero sembrare simpatiche, espressione di ordine sistematico (i quaderni tematici colorati) si rivelano per quello che sono: prove tangibili di una psicosi pericolosa ed inquietante. Ignoro, non ho voluto approfondire, se vi siano elementi autobiografici (qualcuno certamente), ma mi ha disturbata molto l’immagine del matrimonio che vien fuori alla fine del romanzo. Perché niente è mai come appare.

La conclusione, infatti, si rivela l’elemento devastante dell’intero romanzo: il matrimonio, direi meglio, più in generale, la relazione di coppia diviene una farsa, perché fondata sulla recita di ruoli che nascondono la reale natura dei protagonisti, la dipendenza psicologica, il godimento per punizioni e umiliazioni continue.

Il coraggio di essere impopolari

“La lezione non è, dunque, un accasciarsi degli allievi a contatto col maestro per farsi riempire, forse intasare, dalle sue conoscenze.  Ma, in senso inverso, neanche il maestro si deve accasciare sui propri studenti, sacrificando la dignità della propria professione alla sirena del facile gradimento.  Come è umiliante per gli studenti l’essere trattati alla stregua di contenitori da riempire, così risulta altrettanto umiliante per l’insegnate l’essere un pavido favoreggiatore dei suoi studenti e accettare di essere trattato come  tale”.

(pag. 31 e ss)

La scuola  è argomento di dibattito quotidiano amplificato dai social network attraverso polemiche sterili e strumentali. Tutti nel nostro Paese si sentono autorizzati a parlare di scuola come se, per il solo fatto di averla   frequentata, più o meno felicemente, abbiano raggiunto le competenze necessarie ad esprimere  valutazioni su un sistema complesso ed articolato. Spesso questi sedicenti esperti di didattica e di sistemi scolastici  non fanno altro che amplificare luoghi comuni e slogan di chi vuole distruggere un’organizzazione ancora oggi spesso indicata come modello. Basterebbe, per togliere spazio e fiato a questi amplificatori del nulla, vedere i risultati internazionali dei nostri giovani, dei tanti “cervelli in fuga”, costretti ad affermarsi all’estero perché l’Italia non consente loro di  realizzarsi coerentemente con il titolo di studio acquisito.

È chiaro dunque che il problema non è la preparazione dei giovani italiani ai quali, dobbiamo dedurre, la scuola fornisce conoscenze, competenze, abilità, strumenti per aver successo. Con buona pace di chi sostiene che la scuola italiana debba essere bocciata, senza appello.

Tra il tanto parlare di scuola, può tuttavia accadere che si levi qualche voce autorevole, capace di proporre riflessioni costruttive, come accade con il saggio di Gustao Zagrebelsky “La lezione”.  Certo, considerato lo spessore culturale del Prof. Zagrebelsky può apparire scontato il giudizio positivo in merito alle sue considerazioni, anche quando, sulla base della nostra esperienza quotidiana, non le abbiamo trovate del tutto condivisibili. Ciò nonostante , “La lezione” propone un’analisi vera degli errori che si sono diffusi negli ultimi decenni, che hanno  svilito  e  tolto valore all’insegnamento, spesso svuotato di contenuto,  a danno di docenti e discenti.

A questo scivolamento verso il basso ha contribuito la scelta, più o meno consapevole, di certi “insegnanti i quali, aspirano a essere in sintonia con i loro studenti, si adeguano alle loro mode”. Sono, secondo Zagrebelsky quei docenti che hanno rinunciato “a essere punti di riferimento, a essere, anche quando occorre, scogli da affrontare e superare nel processo di crescita culturale”. Insomma, alla scuola è accaduto quanto si è verifica in alcune famiglie in cui i genitori non vogliono (o non sanno) essere educatori, limitandosi ad assecondare i figli, a difendere i loro errori attribuendone la responsabilità ad altri.

Certamente, non è più tempo dell’autoritarismo del passato, tuttavia bisogna essere consapevoli che per educare bisogna assumersi responsabilità e scelte, anche impopolari: l’obiettivo di un Insegnante (utilizzo la maiuscola per scelta consapevole) non è essere popolare con i propri studenti, ma diventare per loro un punto di riferimento. La “democrazia a scuola” non è una conquista positiva come evidenzia Zagrebelsky  ricordando gli anni della contestazione, quando i professori erano costretti a cedere il loro ruolo agli studenti  che pretendevano di insegnare al loro posto. Situazione che qualcuno pretenderebbe di ripetere oggi.

Non possiamo, a questo punto, non chiederci quale debba essere oggi il ruolo dell’insegnante, in un tempo difficile, in cui molti ritengono che la cultura sia quella che si trova in rete e che basti digitare un motore di ricerca per avere le conoscenze necessarie per la propria formazione, ritenendo che apprendere sia un processo facile ed indolore. Non lo è, invece. Ed è proprio questa la sfida che i docenti oggi dobbiamo affrontare perché, come scrive  Zagrebelsky:

“Il primo compito del professore è per l’appunto questo:

smuovere, mettere in marcia con la promessa incerta di qualcosa

che ancora non si vede,

si potrà vedere in seguito, o, forse, mai”.

Insomma, la strada che dobbiamo percorrere è diametralmente opposta a quella indicata dalle sirene incantatrici del tutto subito e senza fatica.

L’amore che non basta

Anna, oramai anziana, un giorno non ha fatto più ritorno a casa dove il marito, Severino, l’ha attesa, giorno dopo giorno. Fino a quando, un anno dopo, in un grigia alba invernale, trascinando una vecchia valigia, Severino parte dal porticciolo di Stromboli (dove si erano trasferiti dopo la pensione) per     ritrovare  e riportare a casa la donna della sua vita, perché questo è stata Anna per Severino.  

Per un intero anno, Severino si è preparato al viaggio, con dedizione e rigore, passeggiando nell’isola per preparare un corpo stanco e malato al lungo pellegrinaggio lungo la Sicilia orientale, in una sorta di via crucis, di città in città, tra i luoghi vissuti e, apparentemente, solo apparentemente, condivisi: Librizzi, Siracusa, Oliveri…  Nelle città abitate e sofferte, incontrando gli amici della giovinezza, riannodando i fili di una vita, rievocando brevi attimi di gioia e dolori profondi,  Severino scoprirà una verità che negli anni gli era sfuggita, ma che, molto probabilmente, non aveva saputo leggere.

Accompagnando Severino, il lettore incontrerà, senza maschere né finzioni,  Anna, seguendola dagli anni della fanciullezza alla maturità. Il viaggio di Severino è dunque il pretesto per  ricostruire la storia di Anna, attraverso un alternarsi di voci e intrecci,  felicemente costruiti dall’autore, un esordiente che promette di regalarci altre opere di grande valore narrativo. Mentre Severino si muove nel presente della ricerca, riconquistando e rileggendo il tempo vissuto, vediamo Anna vivere una vita che non ha scelto, vittima della volontà altrui, accettata per non fare soffrire chi le vuole bene.

   “Le mamme a volte sono egoiste.

Non lo fanno apposta, Dio le mette al mondo per proteggere i figli

e quando è ora non sanno come si fa a lasciarli andare”. 

È  la riflessione che Severino regala ad una giovane donna incontrata all’inizio del viaggio, una riflessione che, come accade a chi ha tanto vissuto, è frutto dell’esperienza di una vita, del dolore sperimentato nella propria vita  o in quella di altri. Nel caso specifico nella vita di Anna, costretta a soffocare il desiderio di vivere come una donna libera e seguire la volontà della madre per la quale:

“Na fimmina nasce per essere mugghìeri di un uomo e mamma d’un figghiu”.

Così Anna, dopo avere provato a sottrarsi,  è stata moglie, cedendo all’amore di Severino; ha cercato disperatamente la maternità e quando ha messo al mondo (facendosi beffa della medicina che la voleva sterile) il proprio figlio avrebbe voluto legarlo a sé, condizionandone l’esistenza, decidendo per lui, pur sapendo che “Il bene di una mamma è pericoloso, può essere acqua e zucchero, ma pure veleno”.

Matteo Corrente, pagina dopo pagina, con profondità e pietas ci regala il ritratto di una donna che non ha saputo ribellarsi, probabilmente, come dice Severino, per mancanza di coraggio. Una donna, comunque, che non può essere giudicata, ma che suscita nel lettore sentimenti di compassione  (inteso nel significato più alto, “patire con”) empatia e solidarietà.

Quando i soldi non danno la felicità

Arriva  sempre nella vita di ciascuno il momento in cui bisogna abbandonare la gentilezza e tirare fuori la fermezza, mostrarsi duri e determinati, nonostante la propria indole. Si tratta, in molti casi, di un passaggio obbligato lungo la strada che dalla fanciullezza conduce alla maturità; un percorso non semplice, costellato da insidie che bisogna imparare a riconoscere ed evitare.

Così è per Gilles Mauvoisin, il “viaggiatore del giorno dei morti”, sbarcato a Rochelle, cittadina costiera del Nord del Francia, sull’Oceano Atlantico. Giunto  come clandestino da un cargo proveniente dalla Norvegia, Gilles  non sa che la sua vita cambierà radicalmente: del tutto fuori contesto, avvolto in un lungo cappotto nero, in testa un cappello di pelliccia, vagherà per le strade della città alla ricerca delle proprie radici: prematuramente orfano di entrambi  i genitori, ha raggiunto la Francia nel tentativo di rintracciare i parenti conosciuti soltanto dai racconti ascoltati nella fanciullezza. Ben presto, scoprirà di essere l’erede di una enorme eredità: una fortuna insperata, lasciatogli dallo zio Octave Mauvoisin, fratello del padre, ma appesantita da segreti che rischiano di imprigionarlo e schiacciarlo.

L’eredità di Octave Mauvoisin lo stava distruggendo.

Aveva paura di andare a fondo,

e non faceva nulla per evitarlo,

come fosse ineluttabile.

Parte dell’eredità ricevuta è la chiave di una cassaforte che potrà essere aperta soltanto individuando la combinazione,  una parola da scoprire per riuscire a fare luce sugli oscuri rapporti che legavano lo zio al sindacato. Una ricerca tutt’altro che semplice, causa di inquietudine per il protagonista, ma anche per il lettore di Simenon, narratore lontano dalle tortuosità acrobatiche di certa letteratura, ma capace di condurci tra le stradine fosche di Rochelle, legandoci empaticamente al protagonista.

Fino  alla conclusione: felice? Da elogiare o biasimare? Dipende dai punti di vista.

Il cuntista diventato narratore

“… io sempre lo diceva che tutte li soferemente che mi incontravino tutte li soportava, … ma però non voleva morire maie, e neanche aveva maledetto alla mia madre e il mio padre, come tante ci ne sono, che bestimino alle suoie cenetore perché lavevino portato a questo monto” pag. 197

Einfühlung  è  una parola tedesca che possiamo tradurre con immedesimazione, ovvero la capacità di vivere idealmente emozioni, stati d’animo, esperienze di altri il cui racconto riusciamo a sentire come nostro. Tale processo, come sanno i dieci lettori che seguono il mio blog, non è scontato: non sempre  gli scrittori (talora neanche quelli premiati e celebrati da critici compiacenti) riescono a condurti dentro le loro storie, ad accompagnarti con la loro presenza e la loro voce. Perché, noi lo sappiamo bene, il lettore dà voce e volto ai personaggi che lo accompagnano attraverso le pagine scritte e lo seguono oltre quelle stesse pagine, quando chiude il libro e teoricamente, solo teoricamente, dovrebbero tacere.

Vincenzo Rabito l’inafabeto, come egli stesso si definisce, diventato scrittore possiede una profonda competenza espressiva che dalla narrazione orale riesce a trasferire sulla pagina scritta, rendendo con una lingua inventata, il racconto della propria esistenza vivo e appassionato ai lettori non solo ragusani. Il romanzo della vita passata, pubblicato a settembre, segue il ben noto Terra matta, divenuto un caso editoriale, dopo essere stato premiato dall’Archivio di Pieve Santo Stefano.

Con Giovanni Rabito
ospiti di Palazzo Antoci

Don Vincenzo (così ho imparato a chiamarlo, dopo averlo conosciuto attraverso le sue pagine) ha trascorso gli ultimi anni della propria vita, chiuso in una stanzetta per scrivere  il proprio “romanzo”, come egli stesso lo definisce, con la consapevolezza del proprio ruolo di narratore. Il risultato dell’impegno degli ultimi tredici anni della sua vita è raccolto in quasi millecinquecento pagine che il figlio Giovanni è riuscito a recuperare e di cui ha curato la pubblicazione.

Il romanzo, in parte, racconta vicende già conosciute in  “Terra matta”, ma presenta anche episodi e personaggi inediti, escludendone altri. L’esito, senza dubbio felicissimo, è la biografia di un uomo, un ragazzo del ’99, che ha vissuto esperienze dolorosissime, si è trovato, poco più che bambino, in situazione disperate dalle quali con caparbietà e coraggio è sempre riuscito a venire fuori, lasciando a tutti noi un profondo insegnamento: la vita va accolta e vissuta, anche quando sembra non esserci speranza e nonostante i sogni infranti.

Giovanni Rabito legge per gli studenti del Liceo Fermi alcune pagine del romanzo paterno

Perché Don  Vincenzo aveva dei sogni che non ha potuto realizzare, ma non si è mai sottratto ai propri doveri di uomo: primo fra tutti, vivere. Il romanzo della vita passata ricostruisce la storia di un lottatore,   rappresentativa dell’esistenza  di milioni   uomini che, magari, non hanno sentito il bisogno di narrarla in forma scritta, limitandosi a raccontarla oralmente ai propri cari.