“Siamo naviganti senza navigare mai”

Ho preso in prestito da Ivano Fossati (“Naviganti”) il verso di una sua composizione per condividere con i miei lettori le riflessioni su “Avviso ai naviganti”,  romanzo pubblicato nel 1993 con cui Annie Proulx ha vinto il premio Pulitzer  e che ho letto come metafora dell’esistere. Una metafora che va ben oltre il semplice accostamento dell’esistenza come viaggio che la letteratura, a iniziare dal mito di Odisseo, ci ha raccontato.

Con una scrittura asciutta, essenziale, a tratti magari distaccata,  che non scivola mai nel facile sentimentalismo, Annie Proulx spinge in alto mare Quoyle, giovane uomo inadeguato e impacciato, non amato  dai genitori e da fratello, che quasi per caso si ritrova a lavorare per un piccolo giornale dal quale periodicamente viene licenziato e riassunto.

Sempre per casoo, incontra  Petal di cui si innamora profondamente e che sposa. La donna, che comunque gli darà due figlie, Banny e Sunshine, non ricambia l’amore sincero di Quoyle che tradisce spudoratamente e liberamente, anche nella stessa casa coniugale, mentre il marito e le figlie dormono al piano di sopra. Fino al giorno in cui scompare da casa con le due figlie, lasciando nella disperazione Quoyle, pronto a perdonarle anche quell’ennesimo tradimento.

Il destino, però, fermerà la fuga d’amore di Petal che morirà in un incidente stradale, dopo avere abbandonato le due bambine che ha venduto per denaro e che Quoyle  col coraggio che solo l’amore può dare riesce a liberare.

Dopo la morte dei genitori, Quoyle,  al seguito della zia, di cui prima della morte del padre aveva ignorato l’esistenza, lascerà New York per l’isola di Terranova dove inizierà per lui una nuova vita, in una terra dal clima inospitale, ma dove riuscirà a conquistare amicizie, affetti, successo professionale.  Dove imparerà, superando ogni paura, a navigare sulle acque difficili che circondano quell’isola, ma anche, per tornare alla metafora iniziale, sulle acque insidiose della vita. Fino a scoprire che nella vita di un uomo può accadere di tutto anche “che l’amore arrivasse senza dolore e senza sofferenza”. Per Quoyle – a cui il lettore impara a volere bene, sentendolo accanto a sé oltre le pagine del libro, grazie alla tenerezza con cui si avvicina agli altri – una conquista che farà propria con lentezza, ma che, senza dubbio, non si lascerà sfuggire.

Annie Proulx fa precedere l’inizio di ogni capitolo dall’immagine e dalla definizione di un nodo marinaresco, presi in prestito  da “Il grande libro dei nodi” di Clifford W. Ashley a cui affida anche la citazione, posta  in calce alla dedica, che riportiamo lasciando al lettore la libertà di decodificarla, in base alla propria sensibilità ed esperienza personale di navigante al di là del mare:

 “In un nodo con otto incroci, un numero che si può ritenere medio, sono possibili 256 combinazioni.

Basta un cambiamento nella sequenza di questi incroci,

e il risultato è un nodo completamente diverso,

oppure  il nodo si disfa del tutto”.

D’amore e dintorni

Pearlie ha conosciuto Holland ancora ragazza, ha trascorso con lui molto tempo, leggendo poesie, proteggendolo quando si nascondeva in casa per non essere arruolato.

I due giovani si ritrovano per caso dopo la guerra e si sposano, in un momento particolarmente difficile anche per gli Stati Uniti, reduci da una guerra non loro, chiamati a fare i conti con il razzismo, la minaccia comunista, nuove guerre.



In questo contesto,  Pearlie decide di prendersi cura di Holland che sa essere malato, di un male senza nome, al cuore probabilmente. Intorno a lui costruisce un mondo ovattato per rimuovere  ciò che potrebbe turbarlo e quindi causarne la morte. Trascorre la giornata ritagliando dal quotidiano le notizie violente  che potrebbero far soffrire Holland fino a mettere “a tacere qualsiasi parte di me che non fosse dolce e gentile”. Per Pearlie ciò è amore,  perché

“crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo,

e anche se non dovremmo stupirci

quando scopriamo che non è vero,

ci si spezza il cuore lo stesso”.

Ed è proprio di questo che parla il romanzo, dell’amore di una donna verso un uomo, un uomo bellissimo, capace di catturare sguardi di ammirazione. Pearlie, che non è altrettanto bella, ritiene quasi un privilegio essere stata scelta da Holland che, quindi, merita tutte le cure e le attenzioni che lei (che si ritiene “un personaggio minore”) può offrirgli.

Però  “La bellezza è una lente deformante”, in quanto  non ci permette di vedere bene a fondo, come  Pearlie scoprirà  quando un pomeriggio alla porta della sua casa   busserà Buzz che, con regali e sorrisi, sconvolgerà la sua tranquilla vita di moglie e di madre, rivelandole un Holland a lei sconosciuto.

“L’oggetto del nostro amore esiste soltanto per frammenti,

una decina se la storia è appena cominciata, un migliaio se lo abbiamo sposato,

e con questi frammenti il nostro cuore fabbrica una persona intera.

Ciò che creiamo […] è l’uomo che vorremmo.

E meno lo conosciamo, più lo amiamo, ovviamente.

 Ecco perché ricordiamo sempre con tanta felicità la prima sera insieme,

quando lui era un estraneo…”.

Fedele al proprio sogno (o illusione) d’amore Pearlie accetta la proposta di Buzz a cui cede, non senza sofferenza, Holland. Un gesto d’amore, certamente, nato dalla presunzione di sapere cosa sia meglio per Holland, dal desiderio di garantire un futuro felice al figlio colpito dalla poliomelite. L’amore di Perlie verso Holland, però, non tiene conto dei desideri e dei sentimenti di Holland il quale sorprenderà il lettore (e non solo) con un gesto che Perlie – e noi con lei – non aveva considerato. Perché crediamo di conoscere chi ci sta accanto e, forti del nostro amore, presumiamo di sapere cosa l’oggetto del nostro amore desideri realmente, cosa sia meglio per lui (o per lei).

Siamo, però, sicuri che sia realmente così? Andrew Sean Greer, pacatamente, quasi sottovoce, ci suggerisce che forse le cose stanno in maniera diversa e che l’amore non è sempre come lo immaginiamo.



Politicamente inidoneo

Ci sono romanzi che diventano compagni assidui, tanto  che i  personaggi vengono a trovarti nei  sogni dove ritrovi le atmosfere,  i luoghi, le vicende narrate. In questi casi, accade  che, giunti alla conclusione, diventa difficile accostarsi ad altri testi a cui ti avvicini con sospetto e dai quali ti allontani con delusione. È quanto succede con “Il Primo Ministro” di Anthony Trollope,  (pubblicato da Sellerio) autore inglese di età vittoriana, epoca ricostruita sul piano politico, sociale e psicologico con una scrittura che (grazie anche all’abilità del traduttore) risulta coinvolgente e profonda. 

Certamente, qualcuno potrebbe chiedersi quale interesse possa avere per noi lettori 2.0 un romanzo ambientato nell’Ottocento inglese. Domanda legittima, ma da respingere immediatamente. Perché l’esperienza politica di  Plantagenet Palliser, questo il nome del Primo Ministro del titolo, può dirci molto sui giochi di potere che caratterizzano la politica, fondata sul compromesso che allontana dal bene comune, essendo rivolta al mantenimento dei privilegi e dei ruoli raggiunti.  Un sistema a cui Plantagenet (il nome sembra un calco da plantageneti,  la casata medievale di Enrico II d’Inghilterra e che, a nostro avviso, assume un valore semantico rilevante) è estraneo, divenendo   nemico   ai suoi stessi alleati che non ne comprendono il valore morale e giudicano negativamente il suo bisogno di essere un politico libero, votato agli interessi del paese.

Tra i critici più severi la moglie, Lady Glencora, fermamente decisa ad avere un ruolo nel governo del marito e che investe una grossa fetta del proprio patrimonio in feste e convegni nelle  proprie abitazioni allo scopo di influenzare e, in qualche caso addirittura, orientare le scelte politiche del marito. Fino a comprometterne, essendosi circondata di individui ambiziosi e scorretti, l’immagine politica   e il suo ruolo di Primo Ministro.

Tanti i personaggi che affollano le oltre mille pagine del romanzo e che vengono rappresentati nella loro complessità da Trollope il quale, da buon autore ottocentesco, non disdegna le descrizioni, spesso puntigliose, ma comunque parte integrante della  narrazione che risulta sempre briosa.

A vivacizzare il quadro della società aristocratica d’epoca vittoriana le vicende amorose di una delicata fanciulla, Emily Wharton, vittima della spregiudicata falsità di un avventuriero affascinante e privo di scrupoli, Ferdinand Lopez. Emily gli preferirà il giovane aristocratico Arthur Fletcher, un gentiluomo onesto, che la ama disinteressatamente e che con discrezione si prenderà cura di lei, senza mai giudicarla e continuando ad amarla. Fino a quando…

Toccherà al lettore scoprirlo.

Prigionieri di se stessi

A qualcuno potrebbe apparire quasi un luogo comune: i  libri ti permettono di vivere tante vite e di conoscere luoghi lontani.  I lettori che hanno il privilegio di incontrare libri di valore sanno che non è un luogo comune. Non lo è affatto con il libro di Doctorow che, ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto in America all’inizio del Novecento, ti porta a condividere la vita dei due fratelli  Collyer.

Mentre ti muovi tra le pagine di Doctorow ti ritrovi nell’elegante abitazione di Fifth Avenue,  quartiere residenziale di New York che si affaccia su Central Park dove Homer e Langley trascorrono tutta la loro esistenza, apparentemente (solo apparentemente) chiusi al mondo esterno, ma di fatto partecipi dei principali eventi storici e delle trasformazioni sociali e culturali di buona parte del Secolo Breve.

Breve e maledetto. Come Homer e Langley intuiscono, sviluppando la consapevolezza che la strada intrapresa dal genere umano lo porterà all’autodistruzione.

Visti dall’esterno, con  occhi borghesi e benpensanti, i due eccentrici fratelli appaiono folli tanto da diventare   oggetto di denunce  e bersaglio di attacchi ripetuti e violenti perché considerati un pericolo per l’incolumità dell’intero vicinato.

Il minore dei due fratelli Homer (divenuto cieco in giovane età) è consapevole di avere intrapreso una strada inconsueta per avere accettato le scelte bizzarre di Langley, tornato dalla prima guerra mondiale minato  nel corpo e nella mente dall’inumana esperienza delle trincee.

L’amore nei confronti del fratello, in un primo momento, impedisce ad Homer di dare il giusto peso a quelle che sembrano stravaganze e che nel tempo travolgeranno la vita di entrambi e la loro casa. Per produrre energia elettrica, senza dovere pagare, Langley decide di collocare nel grande salone che, quando i genitori erano in vita, avevano ospitato cene eleganti, una vecchia Ford Model T. Così, in alcuni decenni la grande abitazione si trasformerà in un enorme deposito di oggetti di ogni tipo, in  “un labirinto di viottoli pericolosi, pieno di ostacoli e vicoli ciechi”, un dedalo complicato costituito da”parti meccaniche di pianoforti, motori avvolti nei cavi di alimentazione, cassette degli attrezzi, quadri, pezzi di carrozzerie di automobili, copertoni, sedie accatastate, tavoli sopra tavoli, testate di letti, barili, pile di libri crollate, lampade d’antiquariato, pezzi di mobili dei nostri genitori, tappeti arrotolati, mucchi di vestiti, biciclette…”.

Doctorow nel suo romanzo con sensibilità e abilità narrativa ha riempito di significati (lasciamo al lettore la libertà di scoprirli) quella che studiosi ed esperti di psicanalisi, quando furono scoperti i  cadaveri dei due uomini, hanno individuato come una  sindrome   compulsiva chiamandola, appunto, sindrome di Collyer.

Per quanto ci riguarda, in linea con lo scrittore americano, ci piace pensare che quella di Homer e Langley sia stata una scelta di protesta contro un mondo dal quale bisognava difendersi:

“Dobbiamo tener testa al mondo:

non siamo davvero liberi

se lo siamo solo

quando gli altri ce lo permettono”.

Pupi e pupari, Montalbano vs Camilleri

A lungo atteso, l’ultimo romanzo di Andrea Camilleri non delude certamente le aspettative dei lettori-fan del commissario più famoso d’Italia. Gli elementi narrativi, infatti, sono quelli soliti di un’indagine condotta con la consueta disinvoltura, ma – questo è certamente un elemento di novità – senza entusiasmo e con una profonda stanchezza, apparentemente attribuita all’età (sebbene Montalbano sia tutt’altro che anziano) di fatto dovuta ad un sentimento di rifiuto di quella che oramai, pirandellianamente, è diventata una prigione.

Perché Montalbano, “chiddro vero” , non certo “chiddro  di la tilivisione” deve fare i conti con il proprio doppio, ovvero il personaggio televisivo scaturito dalla penna di un autore (Cammilleri, appunto) che, spezzando la finzione narrativa, in “Riccardino” è personaggio attivo con cui il commissario interloquisce, litiga, si confronta, fino alla soluzione finale che, per non rovinare il piacere della lettura, trascuro di commentare.

Scritto nel 2005, il romanzo subisce una revisione linguistica nel 2016: Camilleri decide di risciacquare, per dirla con Manzoni, i panni nelle acque della Sicilia, modificando la lingua che assume specificità dialettali ancora più profonde. Ben venga, quindi, l’edizione con le due versioni che consentono un interessante confronto tra le diverse espressioni linguistiche. Solo un esempio,per non tediare. Nella prima stesura leggiamo: “potiva immediatamente sganciarsi dalla facenna passannola ai carrabbinera”, poi modificata con “potiva tirarisi fora ‘mmidiato…”. (pag.10) Inoltre, mentre nella versione del 2016 l’Autore viene indicato genericamente, nella prima stesura veniva indicato con il proprio cognome: “Camilleri”.

Indubbiamente, gli studiosi dello scrittore siciliano avranno modo di esprimere considerazioni autorevoli sulle trasformazioni linguistiche che hanno portato all’edizione definitiva. Per quanto mi riguarda, preferisco soffermarmi  oltre la trama del romanzo: mi sembra, infatti, che Camilleri sia stato spinto da un atto di umile orgoglio (perdonatemi l’ossimoro) che denuncia un conflitto profondo tra autore e personaggio e tra personaggio e autore. Nella dialettica tipicamente siciliana, tra pupo e puparo.

È come se il personaggio, avendo conquistato grande popolarità, fosse sfuggito di mano all’autore che da puparo è diventato pupo, non potendo più decidere autonomamente, ma finendo con il costruire le proprie storie per non deludere lettori e spettatori. Forse, e probabilmente questo dovette pesare a Camilleri, prima gli spettatori e poi i lettori.

“Riccardino” rappresenta quindi il tentativo dell’autore di riprendere in mano le fila e porre fine, con un ultimo atto, alla propria creatura, magari per impedire che altri potessero continuare una saga, apparentemente, senza fine.

Storia di una niña mala e di un pichiruchi

La niña mala che incontriamo già nel titolo è solo in parte la protagonista femminile del  romanzo che dal Perù all’Europa, passando per Cuba e il Giappone, attraversa la storia del secondo Novecento, vista con lo sguardo di Ricardo Somocurcio, amante disperato e ripetutamente deluso.

La storia ha inizio “un’estate favolosa” del 1950 nel quartiere Miraflores di Lima dove l’adolescente Ricardo trascorre le sue giornate tra i bagni e le feste  in cui fa la sua comparsa, come un terremoto, il mambo che  sostituì tutti gli altri balli. Con un ritmo brioso e, apparentemente leggero, Vargas Llosa racconta quell’estate che segnerà profondamente la vita di Ricardo.

Infatti, proprio come un terremoto, nella vita di Ricardo irrombe anche Lily che si presenta come una ragazza cilena (ma che, scopriremo, cilena non è) capace di ispirare sentimenti amorosi e fantasie erotiche tra i ragazzi del quartiere, ma, al tempo stesso, suscitando critiche, maldicenze e invidie da parte delle ragazze, castigate e serie, rispetto alla presunta cilenita, vista come una rivale imbattibile.

Ricardo sogna di vivere a Parigi, meta raggiunta dopo la laurea dove, inaspettatamente incontrerà per la seconda volta, la cilenita di cui non aveva avuto notizia dall’estate favolosa del 1950.

Tanti anni sono trascorsi da allora e Ricardo aiuta, pur non  essendo coinvolto direttamente, dei giovani peruviani che sognano di realizzare nel loro Paese la rivoluzione castrista. Un sogno che finirà tragicamente per gli amici di Ricardo e che viene strumentalizzato dalla  niña mala per potere lasciare il Perù, per lei una  prigione, simbolo di miseria e privazioni che per tutta la vita cercherà di rimuovere, rifiutandosi di farvi ritorno e tagliando ogni legame con la famiglia di origine.

La niña mala (il cui vero nome scopriremo solo verso la fine del romanzo) si lancerà in avventure spesso  dolorose che le lasceranno segni indelebili nel  fisico e nella mente. Il disperato bisogno di raggiungere quella ricchezza  che va ben oltre la sicurezza economica la porterà a condividere la vita con diversi uomini (sposati per interesse e puro calcolo) da cui si allontanerà per trovare rifugio sicuro in Ricardo, sempre fedele ad un amore tormentato e rubato, concesso da una donna che, apparentemente, solo apparentemente, lo disprezza, perché lui pichiruchi (di poco valore)  vive da piccolo borghese, appagato del proprio lavoro, soddisfatto per avere realizzato il sogno adolescenziale di vivere a Parigi dove ha comprato un appartamento e raggiunto una discreta affermazione professionale come interprete e traduttore.

“Io rimarrei soltanto con un uomo che fosse molto, molto ricco e potente. Tu non lo sarai mai, per disgrazia”: dirà la niña mala a Ricardo, mentre si sta separando, ancora una volta, da lui.

Sarebbe riduttivo leggere le avventure della cattiva ragazza  come il racconto della disperata corsa verso l’affermazione sociale di una ragazza nata povera. Giacché il  romanzo offre  lo spunto per  soffermarsi sulle trasformazioni sociali e culturali dell’Europa tra gli anni Sessanta e Ottanta, per condividere con il lettore il sogno di democrazia di una parte della società peruviana che, divenuta parte attiva del progetto di modernizzazione,  dovrà fare i conti con una cocente delusione e col tradimento della classe politica.

Il romanzo ci spinge anche  ad interrogarsi sull’Amore (uso consapevolmente la maiuscola).

In particolare, sull’Amore vissuto con cieca abnegazione, contro ogni ragione, con  fedele dedizione: “continuavo a essere innamorato di una pazza, di un’avventuriera, di una donnetta senza scrupoli con cui nessun uomo, e io meno di chiunque altro, avrebbe potuto mantenere una relazione stabile senza finire calpestato”.

Il lettore a questo punto non può non chiedersi  cosa rende meritevoli d’amore, quale strana alchimia rende possibile perpetuare un legame indissolubile con chi elargisce dolore e umiliazioni. É sempre Ricardo a rispondere quando è costretto a riconoscere che “c’era in lei qualcosa che era impossibile non ammirare, per quei motivi che ci portano ad apprezzare le opere ben fatte, anche se perverse”.

 Sarebbe facile, a questo punto, interpretare quel “opere ben fatte” come una categoria estetica, pagando così un facile tributo alla superficialità propria del nostro tempo.

È, invece, molto altro che tocca al  lettore   scoprire.

“Vogliamo sempre chi non possiamo avere”

Cercami di ANDRÉ ACIMAN

Diciamolo subito, è un romanzo che parla di amore. Di amori incontrati all’improvviso e inaspettatamente;  di amori lasciati andare, ma attesi per anni; di amori cercati e trovati, apparsi come eterni, ma fugaci; di amori che sono rimasti sospesi, ma che non potranno mai diventare realtà.

Samuel, un vecchio professore in pensione, una mattina sale su un treno a Firenze diretto a Roma per  tenere una conferenza e   trascorrere del tempo con il figlio Elio, giovane promettente musicista. Davanti a lui, si siede una giovane donna, Miranda, con il suo cane di compagnia che infastidisce Samuel il quale cerca rifugio nel libro che si è portato dietro, ma che non riuscirà a leggere perché lei comincerà a parlargli. Durante il viaggio l’anziano professore e la giovane donna si racconteranno dando così inizio ad una storia d’amore che diventerà compiuta ed adulta. Nonostante il “Tempo”, distanza impietosa che separa i due: Samuel è consapevole che Miranda ha più o meno l’età di suo figlio, ma la passione e l’amore che legherà i due non può essere frenata dall’età.

“Tempo” è il titolo della prima parte  del  romanzo dove la voce narrante è proprio Samuel il cui sguardo ci porta in giro per Roma e ci fa scoprire l’intensità della passione che in meno di dodici ore lo legherà a Miranda.

“Cadenza”, “Capriccio” e “Da capo” sono i titoli delle altre tre parti in cui si articola il romanzo che, di fatto, è  il sequel di “Chiamami col tuo nome” nel quale Andé Aciman raccontava l’amore tra due uomini, Elio e Oliver.

Elio, figlio di Samuel, oramai affermato pianista e Oliver, professore universitario a New York prossimo, padre di due figli al College, racconteranno le loro vite rispettivamente in “Cadenza” e “Capriccio” per poi ritrovarsi in “Da capo”, nuovamente estranei e incapaci di riportare indietro il tempo.

Perché il tempo è impietosamente traditore e non può ridare mai indietro quanto abbiamo lasciato andare e quando pensiamo di potere riacciuffare quello che non siamo riusciti a portare a compimento rischiamo di essere delusi.

Sarà così anche per Elio e Oliver o i due uomini avranno costruito qualcosa, loro malgrado e nonostante le loro scelte?

Scrive ad un certo punto  Aciman: “Il fatto è che la magia di una nuova conoscenza non dura mai abbastanza. Alla fine vogliamo sempre chi non possiamo avere. Sono quelli che abbiamo perso o che non hanno mai saputo della nostra esistenza a lasciare il segno. Gli altri ne sono solo una misera eco”.

Ma è veramente così? È questo il messaggio che vuole lasciarci l’autore? Personalmente (e invito i lettori ad avviare la discussione, se e quando lo riterranno opportuno) ritengo di no: anche perché la storia d’amore tra Samuel e Miranda chiude in maniera circolare il romanzo e lascerà un  segno concreto in un piccolo Oliver, frutto del loro amore.

In tutto c’è stata bellezza

Pubblicato in Spagna nel 2018, è diventato immediatamente un caso letterario, sia per la particolarità della narrazione che per i contenuti.

Manuel Vilas,  poeta oltre che narratore, affronta un tema universale, quello della condizione umana che alcuni individui riescono a sentire in maniera speciale. Da questo sentire nascono le pagine di un  libro che parla della morte, vissuta come assenza, da cui scaturiscono enigmi rabbiosi.

Enigmi (su fatti ed episodi della vita di chi ci ha amato e che, spesso in maniera maldestra, abbiamo amato) divenuti tali per l’incapacità di porre domande, per pigrizia, per l’ingenua convinzione che ci sarà un tempo in cui chiedere. “Non l’ho chiesto finché potevo perché ho pensato uno di questi giorni glielo chiedo, come se dovessero esser sempre lì”.

Vilas racconta la storia di un padre, una madre e un figlio.

Egli è quel figlio che, dopo la morte della propria madre (il padre era mancato anni prima), si rende conto che non c’è più nessuno capace di amarlo come lo hanno amato i propri genitori. Scopre allora di non avere conosciuto a fondo i genitori, di non avere compreso molte scelte che questi hanno fatto, di ignorare molti fatti della vita loro e delle rispettive famiglie d’origine. Scopre, quindi, che non potrà più sapere il perché dell’insolita scelta di  svolgere  il viaggio di nozze a Lourdes. Scopre che ci sono tante, forse troppe, domande importanti che avrebbe potuto rivolgere al padre e alla madre, ma questi non ci sono più. Tragedia nella tragedia, non ci sono neanche le tombe su cui piangere, poiché, insieme con il fratello, ha scelto di farli cremare.

Il libro è anche, o soprattutto, la narrazione dell’impossibilità di comunicare tra gli esseri umani, destinati ad una solitudine senza speranza, com’è evidente dal  suo rapporto con i due figli che vede raramente, come spesso succede a genitori divorziati. Un rapporto sbilanciato, come lo era stato il suo con i suoi genitori, per la difficoltà dei figli di accogliere pienamente e comprendere l’amore dei genitori: “è una mascalzonata che mia madre non mi abbia visto più assiduo, più desideroso di parlarle al telefono”. La madre che lo chiamava innumerevoli volte, ma alla quale non rispondeva. Come oggi fanno i suoi figli, continuamente attaccati al telefono, ma che non rispondono alle sue chiamate. In una ciclicità infinità a cui, fatalmente, non ci si può sottrarre e di cui Vilas è dolorosamente consapevole.

Michela Murgia, ACCABADORA

 

In Sardegna, anche in tempi più recenti, viveva la “femina accabadora”, chiamata al capezzale dei malati terminali per eseguire una sorta di eutanasia, certamente non legalizzata, ma compresa e condivisa.
Da questa figura trae spunto il romanzo di Michela Murgia, scrittrice profonda ed elegante (qualità non sempre scontate nella narrativa contemporanea), che ci conduce nella cultura e nella tradizione sarda, alla scoperta di un mondo oramai lontano, ma col quale, necessariamente, sarebbe opportuno confrontarsi. Un mondo in cui vivere significava soprattutto sopravvivere, dove una madre poteva rinunciare alla propria figlia (bocca da sfamare nella miseria) affidandola ad una donna sterile.
Da questa consuetudine prende avvio il romanzo della Murgia: Maria viene ceduta dalla madre a Tzia Bonaria. La bambina diventa così la filia de anima di una sarta la cui vita, apparentemente comune e noiosa, nasconde un segreto profondo dal quale Maria cercherà, inutilmente, di fuggire perché, a volte nella vita, anche l’impensabile può diventare realtà.