“La caduta del linguaggio è la caduta dell’uomo”

La parola è l’atto creativo per eccellenza quello che rende l’uomo simile a Dio, come leggiamo nel mito biblico quando Adamo riceve l’incarico di dare il nome a tutti gli animali del mondo appena creato. Quest’atto nobile, che ci dovrebbe innalzare al di sopra delle bestie, può diventare strumento di sottomissione, di manipolazione delle coscienze, di limitazione della libertà di ciascuno. Lo ricorda la storia, più o meno recente (si pensi al nazifascismo, ma anche ad altri autoritarismi), lo dice in maniera assillante la nostra quotidianità, dominata dalla parola attraverso i social network dove chiunque può arrogarsi il diritto di esprimere il proprio punto di vista su argomenti che sconosce ed in merito ai quali non ha competenze, né conoscenze.  Tuttologi del niente che creano confusione e disordini, come è noto a tutti, dai quali possiamo difenderci  soltanto affinando la capacità di leggere oltre il significato letterario, esercitando la competenza  critica per non essere trascinati dalla corrente del populismo becero e dal qualunquismo.

Si tratta di un libro di facile lettura (pur trattandosi di un  saggio) che l’autore definisce “Un’antologia anarchica. Una ricerca di senso”. Perché c’è sempre un senso, più o meno celato, in quello che succede intorno a noi. Un senso che le parole cercano di nascondere, di alterare, quando sono utilizzate in maniera errata, strumentale.

Un esempio, forse nemmeno il più eclatante, è relativo all’uso del termine “lodo”: era il 2003 quando venne approvata la legge 140, nota come “lodo Schifani”, una delle tante leggi ad personam del periodo, il cui fine era – come ricorda Carofiglio – “impedire la celebrazione di ogni processo a carico dell’imputato Berlusconi”.

La legge, dichiarata anticostituzionale con sentenza della Consulta (13 marzo 2004), viene indicata come un esempio “di manipolazione orwelliana del linguaggio” per l’uso del tutto inappropriato di lodo. Citando il Devoto-Oli, Carofiglio ricorda che “il lodo è una formula di transazione o di compromesso in una controversia, proposta da una persona di riconosciute imparzialità e autorevolezza”. Elementi, sottolinea l’autore, completamente assenti nella legge Schifani. Il problema, non certo irrilevante, è che l’incongruenza nell’uso di lodo non venne rilevata da nessuno, nemmeno dalle opposizioni. Si consumò, così, un’azione di “manipolazione dell’opinione pubblica” attraverso una “mossa tanto spregiudicata quanto efficace” che attenuava gli effetti dell’intervento normativo.

La nuova manomissione delle parole in maniera lucida, essenziale ed esemplificativa ricostruisce  episodi come quello appena ricordato (quasi un simbolo della resistibile conquista del linguaggio – e dunque della politica – realizzata dalla destra nel nostro Paese negli ultimi trent’anni), anche molto recenti, regalandoci una sintesi opportuna ed essenziale con la consapevolezza che:

le parole sono anche atti, dei quali è necessario fronteggiare le conseguenze

L’insostenibile leggerezza del vivere

Una donna sulle bianche scogliere,  sta tornando in Inghilterra  dall’Italia per sfuggire ad un amore sbagliato,  in attesa di imbarcarsi   decide di scrivere una lettera alla sorella. Non usa della normale carta da lettera, ma un elegante quaderno, acquistato a Venezia, con la copertina rigida di seta azzurra marmorizzata. Niente di sorprendente, considerato che la lettera non potrà mai essere spedita, visto che la sorella è scomparsa venticinque anni prima.

Si apre così il romanzo di Coe che chiude la trilogia  (i due precedenti sono “La famiglia Winshaw” e “Il circolo dei Brocchi” ) che, secondo alcuni commentatori, costituisce il Romanzo ideale dell’autore inglese  campione della leggerezza della narrazione.

Una leggerezza, permettetemi l’ossimoro, profonda, capace di scavare dentro l’animo umano evidenziandone i limiti e le potenzialità, facendo luce sulle incompiute che ciascuno, non solo i personaggi di Coe ,si porta dietro perché manchevole del coraggio e della volontà di prendere in mano la propria vita e smettere di crogiolarsi in sogni adolescenziali, per vivere il presente ed essere artefici del proprio futuro.

Benjamin, promessa mancata della letteratura inglese, è il personaggio che meglio racconta questa dimensione esistenziale che lo rende un imbranato perdente, ma che, il lettore potrà scoprirlo da sé, potrebbe anche riscattarsi.

La vicenda prende le mosse alla vigilia del nuovo Millennio e si snoda durante il governo Blaire, nell’imminenza della Guerra contro l’Iraq  che vide l’Inghilterra in prima fila e mise in crisi le coscienze di molti, spingendo qualcuno a scelte radicali, tanto da rivoluzionare la propria vita a conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che pubblico e privato si intrecciano, sebbene in qualche caso, come apprenderemo verso la fine della  narrazione, la consapevolezza si acquista dopo tanto tempo.

Colpisce  il lettore la tragica attualità del racconto di Coe che,  a tratti, sembra diventare lo specchio del nostro quotidiano con le teorie complottiste di cui, ahinoi, quotidianamente leggiamo; con i rigurgiti neo-nazisti delle cronache odierne; con l’insofferenza, spesso sfociata nella violenza, nei confronti degli stranieri, dei diversi…

Eppure, c’è ancora spazio per la speranza  che nel romanzo è incarnata da due giovani personaggi: Patrick e Sophie, visti mentre  passano “sotto il grande arco della porta di Brandeburgo, mano nella mano; senza desiderare altro dalla vita, per il momento, che la possibilità di ripetere gli errori che avevano commesso i loro genitori, in un mondo che stava ancora cercando di decidere se concedere loro almeno questo lusso”.

Immaginazione compassionevole e etica altruistica

Immaginazione compassionevole e etica altruistica

Antropocene: è il termine con cui Paul Crutzen,  premio Nobel per la Chimica atmosferica, ha indicato l’epoca geologica che stiamo vivendo. Epoca caratterizzata dall’agire dell’uomo il quale, come spesso sentiamo ripetere, sembra destinato  all’estinzione,  immancabile e (ahinoi!) improcrastinabile risultato di scelte sconsiderate che hanno compromesso il futuro del pianeta. Gli scienziati   continuano, senza posa,  a  indicare i rischiosi cambiamenti causa di incendi, siccità, scarsità di cibo …,  ma le minacce, evidenti e sempre più concrete, sembrano non convincere i Potenti né sembrano sortire scelte strategiche fondamentali per la sopravvivenza della Terra e dei suoi abitanti.  

Quanti (vedi Greta Thunberg) si sono fatti carico  del compito di promuovere comportamenti virtuosi  per la salvezza della Terra diventano in qualche caso oggetto di sprezzante dileggio  da parte di chi (vedi l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump) dovrebbe avere una visione ampia ed a lungo termine delle scelte da operare per il ruolo ricoperto.  Secondo un copione già scritto e che Carla Benedetti fa risalire a Noè, scelto da Dio per costruire l’Arca con cui salvarsi, unico giusto in un mondo di ingiusti, dall’imminente diluvio.

Il contributo che l’autrice dà va oltre il riferimento biblico: attraverso l’analisi di dati e di testi divulgativi scientifici, oltre che letterari, Carla Benedetti sostiene che le parole (pur fondate) degli uomini di scienza sono destinate a rimanere inascoltate perché incapaci di creare empatia, di coinvolgere sentimentalmente gli uomini. Contrariamente a quanto potrebbero fare la filosofia e la letteratura. Insomma, secondo Carla Benedetti, la Terra e i suoi abitanti non saranno salvati dalla Scienza, non solo almeno. Ci salveremo se uomini e donne di Lettere sapranno farsi carico del messaggio che viene dalla scienza e renderlo visibile e comprensibile a tutti.

Si potrebbe certo obiettare che tanta produzione letteraria di denuncia (vedi quella sugli orrori nazisti) non è riuscita a liberarci dai rischi (oggi ancora attuali) di certi fenomeni. Tuttavia, non possono essere ignorate alcune teorie di studiosi che esaltano il ruolo di quella produzione letteraria capace di “potenziare il sentimento empatico”. Tra gli altri, la filosofa statunitense Martha Nussbaum la quale definisce l’immaginazione narrativa come “immaginazione compassionevole”, capace di educare all’etica altruistica. Perché: “Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”, come ricorda l’autrice nell’esergo (attribuito a Albert Einstein) che precede la trattazione.

Augusto, imperatore, ma soprattutto uomo

Ci sono uomini che hanno dato il loro nome ad intere epoche, che pensiamo di conoscere a fondo per averli studiati, per avere riassunto le loro gesta, tradotto pagine che ricostruivano le vicende che li hanno resi protagonisti, letto saggi e romanzi loro dedicati, tanto che qualcuno potrebbe ritenere superfluo l’ennesimo libro che gli viene dedicato.

Certamente, non accade  per “Augustus” di John Williams.   L’autore americano ci conduce a Roma, durante il drammatico passaggio dalla Repubblica all’Impero, rivissuto attraverso i ricordi dei protagonisti,  diretti o indiretti, di eventi che hanno segnato la storia del Mediterraneo.

Il lettore  non troverà (e non potrebbe essere diversamente)  in “Augustus” la rigorosa ricostruzione storica dei fatti accaduti o la biografia del primo imperatore romano in quanto, come l’autore precisa nella nota introduttiva, per esigenze narrative  è stato cambiato l’ordine di alcuni avvenimenti, ma anche perché Williams ha: “inventato laddove i dati storici erano incompleti o incerti” ed ha “creato personaggi che la storia non cita”.

Attraverso una polifonia di voci narranti (appunti di diario, lettere, testimonianze di personaggi storici e non) Willians ricostruisce il lungo periodo  che va dalle settimane precedenti le Idi di Marzo alla vecchiaia di Augusto. Il suo è il racconto della storia vista dall’interno,  con gli occhi degli uomini, politici, ma anche intellettuali, poeti e filosofi;  della storia raccontata attraverso lo sguardo delle donne.

Di alcune donne,  in particolare. Donne di potere, capaci di incidere sugli eventi storici. Tra gli altri, Livia che Ottaviano sposa, dopo avere divorziato da Scribonia, già incinta  di Tiberio, figlio del precedente marito, che caparbiamente destinerà alla successione. Più di tutti, però, nel firmamento femminile di “Augustus”  brilla Livia, l’amata figlia di Ottaviano, strumento delle strategie politiche paterne. In esilio a Pandataria, si racconta in un diario scritto per se stessa, come  semplice “strumento di riflessione”,  da cui emerge una donna colta, consapevole del proprio potere tanto   da dichiarare “che persino una donna poteva restare intrappolata dagli eventi del mondo, e venirne distrutta”. Perché Giulia, come  tutte le donne del suo tempo, ma anche del recente passato, non può ambire al potere “con la forza fisica, o con quella della mente, o del desiderio; né, avendolo ottenuto, può compiacersene apertamente, con quell’orgoglio tutto virile che del potere  è la ricompensa e il bastone. Deve invece indossare mille maschere, per dissimulare le sue conquiste e la sua gloria”.

La personalità di Augusto emerge dai  raccontati di quanti hanno lavorato con lui, che hanno condiviso, o subito, le sue scelte, fino a quando l’imperatore prende la parola nella narrazione per rivelarci qualcosa che non ci saremmo aspettati:

“Io sono un uomo, debole e sciocco

come la maggior parte degli uomini;

se ho un vantaggio sui miei simili,

è quello di esserne consapevole,

e quindi di aver compreso le loro debolezze,

senza la presunzione di trovare in me più forza e più saggezza

di quanta ne abbia riscontrate negli altri”.

Per odio e per amore

Una coppia di sposi che non hanno più nulla da dirsi, irrimediabilmente divisi da un lutto che ha distrutto la loro esistenza; un uomo che ha capito il proprio errore, per il quale, in parte, ha pagato con alcuni anni di carcere. Sono i protagonisti di un romanzo ispirato ad un fatto realmente accaduto, ad un racconto fatto all’autore da un padre che, per caso, incontra l’assassino della propria figlia.

Ne “Gli ultimi giorni di quiete” è Nora ad imbattersi, durante un viaggio in treno, in Paolo Dainese, l’uomo che ha provocato la morte del proprio figlio, Corrado, durante un tentativo di rapina nella tabaccheria del marito Pasquale. Scoprire  che l’assassino del proprio figlio è tornato libero, dopo appena cinque anni di carcere, con una considerevole riduzione della pena,  sconvolge la vita, già duramente provata, della coppia. Nora e Pasquale sono costretti ad affrontare una realtà che non avevano ipotizzato e che scava ulteriormente la distanza che li separa dalla morte di Corrado.  Distanza che Nora sembra volere  accrescere con ferma determinazione avviandosi lungo una strada che la porterà ad allontanarsi da casa per porre fine alla quiete di Dainese che, dopo essere tornato libero, sta tentando di ricostruire la propria vita: ha trovato lavoro, ha una relazione stabile e pensa alla possibilità di avere un figlio. Una normalità  che, secondo, Nora non merita e che lei intende fare saltare, attraverso un piano che metterà in pratica, passo dopo passo, con lucida sistematicità. A guidarla è l’odio, sentimento che individua e accoglie  quale grimaldello per minare la quieta esistenza che  Dainese sembra avere raggiunto:

“ Se stava attenta poteva sentirlo quell’odio ringhiare

come un mostro vulcanico che ribolliva minaccioso,

 pronto a spandere lava tutt’intorno alla prima scossa tellurica”.

Sentimento che Nora sembra condividere con Pasquale il quale riesce a procurarsi una pistola per uccidere, lui che non ha mai sparato, l’assassino di Corrado. Nora e Pasquale, però, si muovono lungo strade diverse per approdare a traguardi differenti che lascio scoprire al lettore che si ritroverà combattuto tra sentimenti contrastanti. La solidarietà nei confronti di Pasquale e Nora per la loro perdita;  la delusione nei confronti della giustizia, apparentemente, incompiuta; la consapevolezza che bisogna sempre dare una seconda opportunità a chi ha sbagliato e ha riconosciuto il proprio errore.

Insomma, il romanzo, pur nella linearità della narrazione, ruota intorno a temi attualissimi, sempre al centro di confronti e di dibattito:

“Un uomo è condannato per sempre, allora? Fine pena mai? A cosa servono i processi, la legge, la galera? Lui aveva capito, aveva capito tutto. Gli errori commessi, la voglia di ricominciare, lasciarsi alle spalle quello che era una volta. Voltare pagina e provare a essere un uomo migliore”.

Non c’è amicizia senza rimorso

Ripropongo la mia lettura di “Due vite” a cui è stato appena assegnato il “Premio Strega”.

Inizia come una fiaba, prosegue come un racconto in cui biografia e autobiografia si intrecciano tessendo la narrazione di un’amicizia a tratti difficile, ma mai venuta meno. Anche quando la vita, per un periodo ha separato, anche quando la morte sembra avere tolto ogni possibilità di incontro. Perché nell’assenza il dialogo con l’amico, quello vero con cui si sono stati condivisi i giorni della spensieratezza o del dolore,  non viene  interrotto, nemmeno nella distanza.

Due vite di Emanuele Trevi è tutto questo e, certamente, tanto altro che il lettore avrà modo di scoprire attraverso la ricostruzione dell’esperienza umana e culturale  di   Rocco Carbone e Pia Pera, certamente autori di “nicchia”, ma il cui contributo nella storia della letteratura italiana non può certamente essere trascurato.

Dalle pagine di Trevi emergono due ritratti complementari di Carbone e Pera.  

L’uno (per dare valore alla vecchia locuzione latina, secondo cui  nomen omen) spigoloso e duro, tormentato da una profonda infelicità, provato da un male di vivere senza nome che ne ha condizionato la vita fino alla morte prematura..

L’altra una signorina per bene, ma tenace e determinata, profonda conoscitrice della letteratura slava, abile traduttrice, capace di rinunciare alla carriera   per ritirarsi in un podere di famiglia e dare vita ad un giardino, figlio di un sogno  inseguito anche negli anni della terribile malattia che l’ha portata via prematuramente, ma che lei ha affrontato con dignità encomiabile.

Così Trevi: “Quando per lei è arrivato il  momento, ha rivelato enormi riserve di saggezza e forza d’animo, combattendo bene la sua battaglia […] Era semmai una persona intensa, dotata di un’anima prensile e sensibile, incline all’illusione, facile a risentirsi”.

Due persone complesse Carbone e Pera con i quali l’autore  ha condiviso sia momenti spensierati che scelte difficili. Non è dunque peregrina l’idea che Trevi (certamente inconsciamente) narrando di Carbone e Pera  abbia voluto raccontare di sé, dell’amore amicale nei confronti di due compagni di strada che la morte ha allontanato, lasciando dei sospesi che, in particolare per quanto riguarda il rapporto con Rocco Carbone, avrebbero potuto  essere causa di rimorsi.

Fu Cesare Garboli nel suo saggio su Antonio Delfini  ad affermare che “in ogni amicizia c’è un rimorso”, come ricorda Emanuele  Trevi che confessa così il sentimento nei confronti di Carbone da cui per un lungo periodo si era allontanato con una determinazione che influenzò i rapporti successivi. Sebbene i motivi che avevano portato alla separazione sembrassero superati.

Dunque,   Due vite può essere letto come un omaggio alla memoria  di due amici, ma anche alla propria vita, nella consapevolezza che ciò che è stato deve essere rielaborato per proseguire nella navigazione, per tutto il tempo che ci sarà concesso.

Voglio concludere queste riflessioni con quanto scrive Trevi, poche frasi, che rivelano il senso di tutto il libro:

“I nostri amici sono anche questo,

rappresentazioni delle epoche della vita

che attraversiamo come navigando in un arcipelago

dove arriviamo a doppiare promontori

che ci sembravano lontanissimi,

rimanendo sempre più soli,

non riuscendo a intuire nulla dello scoglio

dove toccherà a noi,

una buona volta, andare a sbattere”.

Storia di emarginazione e amicizia

Il Quartiere (non un quartiere, ma il Quartiere) della periferia di Roma (la Roma dei gabbiani che si nutrono dell’immondizia non raccolta, la Roma del mondo di mezzo, delle ingiustizie e delle esclusioni) incastrato tra il Raccordo e l’Aniene è il palcoscenico su cui si muovono i  tre giovani protagonisti.

 Flaviano, Manuel e Abdou  sono legati da un affetto sincero e generoso, ma anche da uno stesso destino. Il destino di chi è escluso e rifiutato: Flaviano è stato abbandonato dalla mamma quando era ancora un bambino; Abdou è partito in avanscoperta ed ha raggiunto l’Italia su un barcone, un ragazzino mandato dal padre rimasto in Costa d’Avorio con le figlie; Manuel di origine egiziana, ma nato in Italia, deve confrontarsi con i genitori  che immaginano un futuro costruito sui loro sogni, incuranti delle sue aspirazioni.

Il Quartiere è il loro mondo, vissuto con sofferenza, subordinati al Reuccio, il boss indiscusso, il cui potere  è alimentato dall’incuria e dalla latitanza delle autorità. A lui gli abitanti del Quartiere si rivolgono per dirimere litigi; a lui chiedono di intervenire per risolvere i piccoli problemi di manutenzione degli stabili: “chi è bravo con l’idraulica aiuta chi è bravo con l’elettricità, che aiuta chi è bravo coi lavori in muratura, che aiuta chi è bravo con l’idraulica”, in un continuo dare e ricevere che toglie spazio alla legalità ed alle  libertà individuali.

Tommaso Giagni ci conduce in questo mondo con la tecnica della carrellata cinematografica, guidata dall’occhio attento di un regista che costruisce immagini  di forte plasticità, usando con abile consapevolezza le parole che (direbbe il poeta) “a lettere di fuoco”  si imprimono nell’immaginazione del lettore , spinto fuori dalla comodità e dalle sicurezza del proprio mondo gentile, costretto a fare i conti con la realtà di un mondo volutamente tenuto al margine, ma che rischia di esplodere. Proprio come accade nel romanzo di Giagni.

A innescare la miccia ci penseranno gli abitanti di un quartiere residenziale Verde Respiro, un agglomerato di villette ispirate a quadri famosi, i cui residenti sono disturbati dalla presenza del Quartiere che ne minaccia l’eleganza e ne svaluta il valore. Tra gli abitanti di Verde Respiro c’è Donatella, giovane anticonformista,  che desidera “capire i meccanismi del mondo” empaticamente vicina al Quartiere e lontana anni luce da Verde Respiro, al punto da divenirne nemica impietosa.

Siamo vivi perché empatici

Si chiama empatia la capacità di sentire le emozioni degli altri, come se fossero proprie; la capacità  di vedere nell’altro se stessi, superando i limiti del narcisismo infantile e dell’individualismo egoista che ci allontana dai nostri simili. Donne e uomini empatici possono essere una minaccia per chi governa attento a conservare il potere con strumenti camuffati dai  colori della democrazia, ma di fatto dispotici e illiberali.

 È quanto accade nel paese di DF dove ai cittadini, appena nati, viene inoculato un vaccino che cancella la capacità di provare emozioni e sentimenti, sia  positivi che negativi. Donne e uomini  sono così condannati a diventare adulti incapaci di provare sentimenti, affetti,  ambizioni professionali;  senza  mai conoscere la bellezza  dell’arte, nelle sue molteplici espressioni, dalla pittura alla letteratura alla musica. Donne e uomini nel paese di DF sono automi incapaci di provare desiderio e volontà; sono monadi che vivono  immersi in un mondo grigio, colore declinato nelle diverse sfumature, costruito per soddisfare tutti i bisogni individuati attraverso algoritmi pensati per tutti gli aspetti dell’esistenza: dalla famiglia (matrimoni di durata quinquennale con partner imposti allo scopo di procreare altri automi sottratti alla nascita) al lavoro (assegnato sulla base di capacità manifestati fin dall’infanzia), allo sport (tristemente vissuto in palestre casalinghe organizzate dal potere).

“… La cucina dei classe cinque aveva i comuni elettrodomestici, frigorifero, forno, piano cottura cappa e anche un forno a microonde e una piastra per panini, tutti in formica grigia quattrocentoventidue tranne i profili che erano neri settecentoventisette, una stanza per l’esercizio fisico con una cyclette e un  tapis roulant e attrezzi e pesi verdi trecentosedici, la stanza per l’esercizio fisico era considerata una priorità dal governo di DF, l’esercizio fisico era fondamentale per garantire una perfetta rotondità affettiva che non cedesse alle sbavature di emozioni viatico di pazzia”.

È questo il mondo immaginato da Giulio Cavalli nel suo ultimo romanzo  (meritatamente segnalato  per concorrere al Premio Strega, ma, purtroppo, escluso dalla dozzina dei finalisti) che si legge d’un fiato, grazie anche ad una scrittura scorrevolissima, fondata su una sintassi che, spesso libera dalla punteggiatura, ci porta ad immergerci nella vita dei personaggi e a sentirne (empaticamente) il dolore e la delusione, la sofferenza e la scoperta, fino a svelarsi come metafora minacciosa del rapporto che lega governanti e governati, capaci di consegnare la loro libertà, volontariamente, per pigrizia o per vigliaccheria, al potere.

Un mondo indubbiamente distopico la cui costruzione richiama a “Fahrenheit 451” di Bradbury e “1984” di Orwell, ma che ci spinge a guardarci intorno, a riconsiderare il mondo in cui viviamo per non finire, al pari dei cittadini di DF, col consegnare la nostra libertà in nome di una sicurezza che, di fatto, si chiamerebbe schiavitù.

Siamo tutti monadi con lo smartphone

La vicenda ha inizio su un aereo dove in bussines class incontriamo Jim e Tessa, di ritorno da un viaggio a Parigi, il primo dopo la pandemia Sono attesi a New York a casa di due amici per celebrare il rito collettivo, tutto americano, del Super Bowl dell’anno 2022.

Da poche settimane nelle librerie italiane (particolarmente atteso grazie anche alle  strategiche interviste all’autore oramai ottantaquattenne e alle esaltanti recensioni pubblicate negli Stati Uniti e accompagnate dalla convinta dichiarazione da parte dell’editore, certamente finalizzata a dare conferma delle abilità profetiche di Delillo, che il libro è nato prima della pandemia) il racconto lungo, perché di questo di fatto si tratta, presenta forse qualche debolezza. I riferimenti alla pandemia  sono evidenti, nonostante le dichiarazioni dell’editore, ed è probabile che la scrittura ne sia stata ispirata e condizionata, come dimostrerebbero i riferimenti ad eventi oramai più che noti.

“Il silenzio”, comunque, ci spinge a riflettere (così come sta facendo il Covid-19) sul nostro stare al mondo e sulle conseguenze che la tecnologia ha sulle nostre vite e sul futuro del mondo stesso a cui ci conduce la lapidaria conclusione del racconto.

Mentre Kim e Tessa sono in volo, nella casa di Diane e Marx a  Manhattan  tutto è pronto e  si osserva già lo schermo su cui comincerà l’attesissimo evento. Assieme agli anziani coniugi, troviamo un’ex studente di Diane, Martin, un giovane fisico dal temperamento a tratti inquietante. Sta studiando un manoscritto di Einstein di cui cita la celeberrima affermazione che Don Delillo utilizza nell’esergo: “Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni”. Possiamo individuare dunque nel personaggio di Martin, pur anagraficamente lontano dall’autore, l’alter ego di Delillo il quale dichiara di non possedere uno smartphone e di continuare a utilizzare la sua vecchia macchina da scrivere.

Improvvisamente, nell’appartamento di Manhattan cala il silenzio: un silenzio assordante ed inquieto, provocato da un blackout che pone fine ad ogni possibilità di comunicare e che causa un atterraggio di emergenza dell’aereo su cui viaggiavano Jim e Tessa che prima  ritroviamo in fila al pronto soccorso, dove l’uomo dovrà farsi medicare una ferita riportata sbattendo sul finestrino, e subito dopo (non prima, però, di una scena di sesso, quanto mai improbabile, nel bagno dell’ospedale)  a casa di Diane e Marx .

Vediamo quindi i personaggi  interrogarsi sulle ragioni di un evento che “ha messo fuori uso la nostra tecnologia” senza la quale è impossibile comprendere cosa stia accadendo fuori dalle mura di casa. Non rimane che tentare di formulare qualche ipotesi attribuendo l’origine dell’evento (come per la pandemia) ai cinesi o all’incapacità del governo. Per la serie, come diceva un mio vecchio professore, “Piove, governo ladro!”.

“Potrebbe essere il governo degli algoritmi.

I cinesi lo guardano, il Super Bowl.

Loro giocano a football americano.

I Beijing Barbarians. Tutte cose verissime.

E quelli che ci rimettono alla fine siamo noi.

Hanno innescato un’apocalisse selettiva della rete.

La partita: loro adesso la stanno guardando e noi no”.

Si potrebbe dire che nel racconto prevale la struttura  dialogica (mimetica come direbbe un critico letterario) su quella meramente narrativa, ma non lo diciamo. Anche perché quelli che abbiamo letto (e che leggerete) sono monologhi, soliloqui, a tratti privi di senso e inquietanti.

Ciò che più inquieta, però, è che questa difficoltà nella comunicazione non è solo la conseguenza del blackout. L’esordio del racconto, quando abbiamo incontrato Jim e Tessa, ruota sul dialogo tra i due che, seppure a tratti sembrano comunicare, abbiamo percepito ciascuno chiuso nel proprio mondo.

Storia di un uomo che fu politico e poeta

La notte tra il 13 e 14 settembre 1321 Dante Alighieri chiude la propria esperienza terrena, andando a scoprire  “se quanto aveva immaginato  in tutti quegli anni era vero”: così si  conclude  la biografia di Alessandro Barbero – in questi giorni al terzo posto della classifica dei libri più venduti – il quale chiama Dante “profeta,  per avere immaginato e messo in rima un mondo ultraterreno che ancora oggi continua ad affascinare i  lettori di ogni età.  

La scoperta di cui parla Barbero è proprio relativa all’aldilà che, nella finzione poetica, Dante aveva avuto il privilegio di potere visitare per mostrare agli uomini dove la loro vita avrebbe potuto condurli.

L’avvincente  ricostruzione di Barbero  si apre  con la battaglia di  Campaldino –  certamente, ben nota ai lettori, anche a quelli che si sono avvicinati alla Commedia soltanto a scuola – a cui  Dante partecipò come cavaliere, nel ruolo di feditore schierato in prima linea. Battaglia  che vide gli uni contro gli altri  armati  guelfi fiorentini e ghibellini aretini, protagonisti di uno dei tanti episodi che  insanguinarono la storia dell’Italia comunale di cui Dante fu protagonista e vittima.

La  celebre battaglia tra fiorentini e aretini  nella ricostruzione della biografia di Dante viene utilizzata da Barbero per definire la condizione sociale del poeta: sicuramente non di nobili origini, tuttavia abbastanza ricco da permettersi di combattere armato e a cavallo ed esibendo lo stemma di famiglia.  Uno stemma parlante, come ci spiega Barbero “con un’ala d’oro in campo azzurro, fondato su un’improbabile interpretazione dotta del cognome: Aligerii, i portatori d’ali” . (pag. 46)

Attraverso il dialogo serrato con le fonti (la biografia vanta ben ottanta pagine di note fittissime, ahimé a fine testo, posizione che non accompagna (né agevola) la lettura, come sarebbe accaduto  se fossero state collegate a piè di pagina) Barbero ricostruisce la vicenda pubblica e privata di un uomo incastrato nei meccanismi della politica dell’età comunale, caratterizzata da lotte sanguinose e scelte impopolari, non sempre eticamente accettabili. Come, purtroppo, accade ancora oggi nell’agone politico.

Dante, tuttavia, non fu solo un uomo politico. Fu, innanzitutto, un letterato, un poeta di talento che giovanissimo, grazie ai propri versi, venne accolto dall’élite  cittadina, da poeti più anziani di lui, quali Forese Donati e Guido Cavalcanti, ottenendo fama e riconoscimenti.

Fu grazie al prestigio personale acquisito con la poesia che durante l’esilio venne accolto (e diremo quasi conteso) dai Magnati, certi del prestigio che la presenza di Dante avrebbe dato alla loro corte.

La biografia di Barbero aiuta a fare chiarezza su alcuni aspetti controversi della vita di Dante che può essere compresa soltanto se letta attraverso le vicende storiche dell’Italia Comunale. In particolare, la collocazione del poeta nello schieramento dei Guelfi Bianchi che non può essere considerata come scelta assoluta. Non sarebbe, dunque, del tutto erronea la definizione di “ghibellin fuggiasco” che Foscolo nei Sepolcri dà di Dante. Sia perché l’appartenenza all’uno o all’altro schieramento – come ci racconta Barbero – non era, all’epoca,  definita e certa. Sia perché Dante, negli anni dell’esilio, assunse una posizione tendenzialmente (oggi si direbbe responsabilmente) filo ghibellina. E non poteva essere altrimenti, viste le difficoltà dei comuni di amministrarsi liberamente e il tributo pagato da molti.

Quello corrisposto da Dante è noto a tutti: l’esilio che lo vide ridotto in miseria, costretto a chiedere aiuto e sostegno, perdendo la propria libertà, di uomo e di letterato. Una condizione umiliante che, come leggiamo nella profezia di Cacciaguida riportata da Barbero, lo porterà a scoprire

… come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.