
“Amavamo i punti di passaggio. E forse, adesso che ci penso, quello fu Roma per me: una tappa intermedia imprevista e periferica che all’improvviso diventa l’aster della vita, l’interludio che soppianta il prima e il dopo. Roma non aveva mai chiesto di essere amata e [ …] non avrei capito di amarla o di volerla amare finché non fossi stato sul punto di perderderla”. (p. 335)
È il 1967 quando André Aciman, ancora adolescente, arriva in Italia assieme al fratello minore e alla madre sorda. La sua famiglia è tra le ultime a lasciare Alessandria d’Egitto, perché espulsa, al pari degli altri, dal governo nazionalista di Nasser in quanto ebrei sefarditi. L’arrivo in Italia riserva al giovane Aciman non poche delusioni: l’approdo al porto di Napoli; l’incontro con lo zio paterno Claude, emigrato già da diversi decenni e considerato (il lettore scoprirà se a ragione) un “orco” dall’intera famiglia; il passaggio al campo profughi, fino all’arrivo a Roma per abitare in un appartamento messo a disposizione dallo zio e lontano anni luce dalla Roma affascinante e carica di storia che il protagonista aveva sognato.
Quella che diventerà la casa romana della famiglia Aciman sorge infatti in via Clelia, in un quartiere popolare che il giovane André rifiuterà e di cui si vergognerà. Fino al punto di mentire ai compagni dell’importante scuola americana che frequenta con il fratello.
“Avevo creduto che, appena fossi sbarcato in Italia, ogni cosa di me sarebbe stata cancellata. Mi sarei dimenticato chi ero o quello che avevo imparato in Egitto. Invece, con mio grande stupore, mi accorsi che, nonostante mi fossi trasferito da una sponda all’altra del Mediterraneo, non era cambiato nulla. Restavo lo stesso di qualche giorno prima, non ero svanito. Volevo dimenticare chi ero, voltare pagina, diventare un individuo nuova. Ma rimanevo quello di sempre e non ne ero felice.”(p.23)
André dunque inizia la sua esperienza italiana schiacciato da sentimenti negativi amplificati dalla consapevolezza di cambiamenti nella propria vita ed in quella delle persone a lui più care più che negativi. Mentre ad Alessandria vivevano nell’agiatezza, gli Aciman si ritrovano ad affrontare difficoltà economiche e a dovere calcolare minuziosamente ogni singola spesa. A ciò bisogna aggiungere la consapevolezza di vivere in una famiglia disfunzionale (come diremmo noi oggi) a causa del profondo e insanabile conflitto tra i genitori che, pur rimanendo formalmente sposati, vivono di fatto da separati. Inoltre, mentre il fratello e la madre riescono a inserirsi nel nuovo quartiere, facendo amicizia con i nuovi vicini, Andrè si chiude nel proprio mondo, fatto di letture, ma anche di lunghe passeggiate alla scoperta di Roma che, poco alla volta, lo porteranno e scoprire la bellezza immaginata e a innamorarsi della città.
Fino al punto di temere il trasferimento a New York, tanto desiderato e per il quale si era tanto adoperato, per frequentare il l’Hunter College. Il trasferimento negli USA, vinte le resistenze anche paterne, viene quindi accolto ed organizzato come un passaggio, un evento temporaneo, necessario ad André per continuare gli studi universitari, dopo i quali la famiglia avrebbe dovuto fare ritorno in Europa. Parigi, infatti, contrariamente a quanto avvenuto con Roma aveva subito fatto innamorare Andrè al punto da desiderare viverci.
Non accadrà: l’arrivo a New York sarà per la famiglia Aciman definitivo, ma il legame di Andrè con Roma (e forse anche con la via Clelia) sarà indissolubile, come testimoniano i continui ritorni e le passeggiate assieme alla moglie e ai figli, lungo le vecchie strade della sua adolescenza, in un nostos, un ritorno ad un passato cancellato per sempre.
“Anche quando, qualche anno dopo, ci tornai con uno dei miei figli, ormai adulto, il nostro vecchio appartamento non mi disse nulla; mi ricordavo tutto, ma non provavo nessuna emozione. Suonai il campanello quattro volte, ma neppure questo smosse qualcosa dentro di me, e quando chiesi ai nuovi proprietari se i termosifoni funzionavano, mi risposero di si, sempre, e mi dissero anche le finestre non si rompevano” (pag. 379)