Il romanzo come nostos, ritorno a ciò che è perduto

“Amavamo i punti di passaggio. E forse, adesso che ci penso, quello fu Roma per me: una tappa intermedia imprevista e periferica che all’improvviso diventa l’aster della vita, l’interludio che soppianta il prima e il dopo. Roma non aveva mai chiesto di essere amata e [ …] non avrei capito di amarla o di volerla amare finché non fossi stato sul punto di perderderla”. (p. 335)

È il 1967 quando André Aciman, ancora adolescente, arriva in Italia assieme al fratello minore e alla madre sorda. La sua famiglia è tra le ultime a lasciare Alessandria d’Egitto, perché espulsa, al pari degli altri, dal governo nazionalista di Nasser in quanto ebrei sefarditi. L’arrivo in Italia riserva al giovane Aciman non poche delusioni: l’approdo al porto di Napoli; l’incontro con lo zio paterno Claude, emigrato già da diversi decenni e considerato (il lettore scoprirà se a ragione) un “orco” dall’intera famiglia; il passaggio al  campo profughi, fino all’arrivo a Roma per abitare in un appartamento messo a disposizione dallo zio e lontano anni luce dalla Roma affascinante e carica di storia che il protagonista aveva sognato.

Quella che diventerà la casa romana della famiglia Aciman sorge infatti in via Clelia, in un quartiere popolare che il giovane André rifiuterà e di cui si vergognerà. Fino al punto di mentire ai compagni dell’importante scuola americana che frequenta con il fratello.

“Avevo creduto che, appena fossi sbarcato in Italia, ogni cosa di me sarebbe stata cancellata. Mi sarei dimenticato chi ero o quello che avevo imparato in Egitto. Invece, con mio grande stupore, mi accorsi che, nonostante mi fossi trasferito da una sponda all’altra del Mediterraneo, non era cambiato nulla. Restavo lo stesso di qualche giorno prima, non ero svanito. Volevo dimenticare chi ero, voltare pagina, diventare un individuo nuova. Ma rimanevo quello di sempre e non ne ero felice.”(p.23)

André dunque inizia la sua esperienza italiana schiacciato da sentimenti negativi amplificati dalla consapevolezza di cambiamenti nella propria vita ed in quella delle persone a lui più care più che negativi. Mentre ad Alessandria vivevano nell’agiatezza, gli Aciman si ritrovano   ad affrontare difficoltà economiche e a dovere calcolare minuziosamente ogni singola spesa. A ciò bisogna aggiungere la consapevolezza di vivere in una famiglia disfunzionale (come diremmo noi oggi) a causa del profondo e insanabile conflitto tra i genitori che, pur rimanendo formalmente sposati, vivono di fatto da separati. Inoltre, mentre il fratello e la madre riescono a inserirsi nel nuovo quartiere, facendo amicizia con i nuovi vicini, Andrè si chiude nel proprio mondo, fatto di letture, ma anche di lunghe passeggiate alla scoperta di Roma che, poco alla volta, lo porteranno e scoprire la bellezza immaginata e a innamorarsi della città.

Fino al punto di temere il trasferimento a New York, tanto desiderato e per il quale si era tanto adoperato, per frequentare il l’Hunter College. Il trasferimento negli USA, vinte le resistenze anche paterne, viene quindi accolto ed organizzato come un passaggio, un evento temporaneo, necessario ad André per continuare gli studi universitari, dopo i quali la famiglia avrebbe dovuto fare ritorno in Europa. Parigi, infatti, contrariamente a quanto avvenuto con Roma aveva subito fatto innamorare Andrè  al punto da desiderare viverci.

Non accadrà: l’arrivo a New York sarà per la famiglia Aciman definitivo, ma il legame di Andrè con Roma (e forse anche con la via Clelia) sarà indissolubile, come testimoniano i continui ritorni e le passeggiate assieme alla moglie e ai figli, lungo le vecchie strade della sua adolescenza, in un nostos, un ritorno ad un passato cancellato per sempre.

“Anche quando, qualche anno dopo, ci tornai con uno dei miei figli, ormai adulto, il nostro vecchio appartamento non mi disse nulla; mi ricordavo tutto, ma non provavo nessuna emozione. Suonai il campanello quattro volte, ma neppure questo smosse qualcosa dentro di me, e quando chiesi ai nuovi proprietari se i termosifoni funzionavano, mi risposero di si, sempre, e mi dissero anche le finestre non si rompevano” (pag. 379)

Il “romanzo” di formazione di un Nobel

“Com’era vasto il mondo, e com’era ricco di varia umanità e strani accadimenti! E com’era alto il cielo sopra i tetti! E com’era profonda la terra sotto le pietre del selciato! E perché uomini e donne si amavano? E dov’era Dio, di cui si parlava sempre in casa nostra? Ero meravigliato, felice, estasiato. Sentivo di dover risolvere quell’enigma da solo, con la mia intelligenza” (pag.85)

Ci sono scrittori che hanno il potere di condurti nel loro mondo e di farti sentire parte di esso. Un mondo a te ignoto, perché storicamente e culturalmente lontano, che rappresenta una scoperta, sempre nuova e preziosa, ma di diventi parte, grazie all’abilità del narratore.

Isaac Bashevis Singer (premio Nobel per la Letteratura nel 1978) appartiene a questa categoria di scrittori. Qualcuno potrebbe obiettare che per lui è stato facile, avendo avuto il vantaggio e il  privilegio di vivere in una famiglia fuori dal comune, capace di ispirare pagine memorabili di letteratura nelle quali l’esperienza personale si erge a paradigma di una vita fuori dall’ordinario. Il padre, Rabbino in via Krochamalna, a Varsavia, svolgeva il proprio lavoro in casa: nel suo studio si celebravano matrimoni, banchetti chassidici; si studiava e si pregava, ma soprattutto si cercava di dirimere i conflitti più disparati tra personaggi di ogni tipo, attraverso la saggezza derivata dalla Torah di cui era interprete.

Ebreo puritano e pio, il Rabbino Singer, noto esempio di integrità e sobrietà, svolgeva il proprio lavoro con accanto il giovane Isaac che, tra le mura di casa, viveva l’esperienza di un mondo ancorato al passato, mentre fuori era in atto un cambiamento profondo, causa, tra l’altro, di conflitti familiari. Espressione del nuovo era, ad esempio il fratello maggiore Israel Joshua (anch’egli scrittore) schieratosi presto contro la rigida osservanza paterna:

“Eravamo gli eredi di un codice eroico non ancora descritto nella letteratura yiddish, la cui essenza consisteva nella capacità di sopportare le sofferenze per amore della purezza spirituale” (pag. 205).

Il mondo esterno, infatti, era abitato da una enorme quantità di gente che non condivideva gli ideali dell’anziano rabbino e della moglie, costretta a confrontarsi quotidianamente con la via Krochmalna e verso la quale provava un profondo sentimento di estraneità, amplificato dalla mancanza di denaro. 

Inoltre, alle difficoltà culturali della famiglia si affiancavano quelle economiche, da tutti affrontati con eroico stoicismo:

“Io andavo in giro con un caffettano che mi stava piccolo. Ogni tanto ricevevo un nuovo capo di vestiario, però solo quando quello vecchio era ridotto a brandelli”.

Presto, il giovane Isaac cominciò ad avvertire lo iato, sempre più profondo, tra il vecchio mondo dei genitori e il nuovo, abbracciato dal fratello. Infatti, mentre i genitori rimanevano fedeli a un ebraismo rigido e per questo respinto da molti, i figli sperimentavano le contraddizioni e le falsità dei numerosi personaggi che frequentavano la loro cara, per essere ascoltati dal padre, e la cui condotta di vita era lontana dalle prescrizioni della legge ebraica. Questa, per molti, era uno strumento per avere conferme ai propri comportamenti e sopraffare l’avversario. Furberie, meschinità, cupidigia, ipocrisia si manifestavano sempre con maggiore frequenza provocando, soprattutto in Israel Joshua, il rifiuto di un mondo a cui sentiva di non appartenere, ma (ed è questo l’elemento più significativo) non voleva più appartenere.

“Mio fratello … a causa delle sue idee emancipate, trovava difficile parlare con mio padre, che gli rispondeva sempre: Miscredente! Nemico di Israele!” (pag. 224)

Fu la guerra ad imprimere una svolta decisiva alla vita della famiglia Singer e a tutta la comunità ebraica, sebbene, dopo l’attentato di Sarajevo, si fosse diffusa la speranza di un cambiamento, di un miglioramento di fatto negato da eventi drammatici che avrebbero segnato un’epoca.

Imparare a perdonare e perdonarsi

“Benedette figliole. Benedette fanciulle con le lenti da vicino e le vene varicose, possibile che non capiate? Le orfane bianche siete voi. Voi siete davvero orfane bianche” (pag.225)

Natàlia, Lucia e Germana sono tre donne non più giovani che fin dalla prima infanzia sono state private delle cure materne. Le rispettive madri, infatti, per motivi affini (il disagio psicologico, in qualche caso emerso dopo il parto, che  le ha rese figlie delle loro figlie) hanno delegato ad altri, mariti, sorelle, parenti, l’accudimento delle tre bambine, rendendosi protagoniste di atti di rifiuto, talvolta reiterati, che –  come scopriremo nel corso della lettura – avrebbero potuto avere conseguenze gravissime. Al dramma dell’abbandono  si sono aggiunti dolori e perdite personali, sconfitte e delusioni eppure  Natàlia, Lucia e Germana, non più giovani ma nonancora anziane, non hanno rinunciato al sogno di avere del tempo per sé,  da vivere lontano, pur per brevi periodi, dalle rispettive madri di cui sono costrette ad occuparsi. Si tratta, com’è facilmente immaginabile, di relazioni tossiche, condizionate dal disamore accumulato nel corso degli anni, difficili da gestire e, apparentemente senza soluzione.

Fino a quando Lucia non propone alle due amiche, ritrovate dopo anni, di vivere tutte insieme, con le rispettive madri, nella sua grande casa e condividere le responsabilità dell’accudimento:

“Un incastro perfetto, considerato tutto.

Una società.

Un sodalizio.

Di più: un gioco” (pag. 29)

Le sei donne (le tre figlie di mezza età e le madri anziane) iniziano la loro convivenza che seguiremo attraverso la narrazione per quaranta giorni: da un mercoledì (18 febbraio, le ceneri) a una domenica (5 aprile, Pasqua di resurrezione). La narrazione, pardon la rappresentazione  di un lungo percorso quaresimale sarà seguita dallo sguardo attento e scrutatore di uno spettatore esterno: perché l’autrice, utilizzando in maniera sapiente e originale la scrittura, mette in scena personaggi, situazioni, sentimenti quasi fosse un dramma teatrale dove il comico e il tragico convivono, come sempre accade nell’esistenza quotidiana, per raccontare vite spezzate che imparano a ricomporsi, rapporti conclusi che possono ricominciare, affetti negati che si scoprono. Succede anche nella vita. Perché questo è la letteratura: la vita che diventa parola e che, attraverso la parola, si sublima.

Perché accada, però, è necessario scoprire verità e errori e comprendere come porvi rimedio. È necessario imparare ad accogliere e ad incontrare. È necessario sapere perdonare e perdonarsi, come per le nostre donne.

“Il perdono è nell’incontro.

L’uno fa un passo: chiede perdono. L’altro fa un passo: dà il perdono. Un dono più grande.

Il perdono è nell’incontro – nel passo in avanti, e non solo nel gettarsi in ginocchio. Ma anche chi perdona fa un passo verso l’altro, e si getta in ginocchio. Chi chiede perdono e chi dà il perdono sono sullo stesso piano, possono allungare una mano e si toccheranno. Usano i medesimi gesti. Conoscono gli stessi nomi. Essi chiamano male il male, e bene il bene. E tutto questo, coscienza”. (pag.309)

La memoria necessaria

Leo Samuele Olschki  aveva lasciato la Prussia orientale, nel 1883 per trasferirsi  in Italia e fondare la casa editrice che da lui prende il nome. In pochi decenni grazie alle sue raffinate ed erudite pubblicazioni era riuscito ad ottenere importanti riconoscimenti tanto che Vittore Branca, noto critico letterario all’epoca ancora molto giovane, arrivò a indicarlo come «il favoloso principe dei bibliofili, l’amico di imperatori e di re, dei Morgan e degli Acton, di D’Annunzio e di Rilke». (p. 13)

L’affermazione professionale, conseguenza  dei suoi interessi culturali e della passione  per la letteratura italiana (e di Dante in particolare al quale dedica un’edizione monumentale della Divina Commedia) non fu sufficiente dopo il luglio 1938. Una data fatidica questa per il nostro paese, perché segna la promulgazione delle legge razziali e l’inizio della persecuzione  dei cittadini di religione ebraica. Come Leo Olschki, appunto, che negli anni precedenti aveva già dovuto affrontare  attacchi alla propria attività sulla stampa fascista ad opera dei nazionalisti. Il 19 luglio del 1930 su “La tribuna” era stato definito «editore polacco ebreo» reo di “non operare nell’interesse della cultura nazionale” (p. 18). Piccoli segnali  che anticipavano quanto sarebbe arrivato in seguito alla pubblicazione del  R.D.L. del 7 settembre 1938 con l’ingiunzione a denunciare i collaboratori, gli autori, gli impiegati della casa editrice di religione ebraica. Fu l’inizio: le richieste del  “Ministero della cultura popolare diverranno sempre più pressanti fino all’invito ad attivarsi «nel più breve termine di tempo possibile per la sostituzione del nominativo della Vostra Casa Editrice con altro nome ariano» (pag.24)

Ebbe inizio così per la Olschki un lungo e difficile periodo che si protrarrà fin oltre la seconda guerra mondiale e che sarà possibile superare grazie al lavoro e all’impegno degli eredi di Leo. Tra questi vi è Daniele Olschki autore di questo libretto (tale per dimensioni, non certo per il  valore storico e per la ricca e preziosa documentazione che ricostruisce la vicenda) il quale per anni ha custodito un fascicolo intitolato: “Meminisse iuvabit” (gioverà ricordare, appunto, oggi più che in passato) dove il nono aveva raccolto il carteggio con il “Ministero della cultura popolare” , fedelmente riprodotto nel libro.

Storia di una combattente

Marta si stava preparando alla maturità (il momento più intenso per la vita di un giovane,  momento di scelte determinanti per il futuro, di speranze e sogni)  quando improvvisamente si risveglia in un letto della terapia intensiva e prende atto del cambiamento che subirà la sua vita. Fermata da una malattia terribile alla quale non si arrenderà, troverà la determinazione e il coraggio di prendere in mano la propria vita e di ricostruirla, anche quando la lotta si fa impari.

“Ricordo la luna” è la storia di questa lotta. È la storia del coraggio di una ragazza e del difficile cammino nel suo farsi donna. È la storia di donne forti (mamma Anna, zia Franca…) che si sostengono per proseguire, senza mai arrendersi. È la storia di legami familiari che hanno radici lontane, ma forti e vitali, tanto da trasmettere l’energia necessaria ad andare avanti. È la storia di una malattia, ma anche della burocrazia disumana che assume le sembianze di impiegati senza anima, incapaci di vedere, ma abilissimi nel seminare ingiustizie.

Con la forza che la caratterizza, già affinata contro il male,  Marta si impegnerà a combattere per il riconoscimento dei propri diritti calpestati da burocrati freddi e indifferenti, pronti ad umiliare, aggiungendo dolore al dolore. Ma, come scoprirete leggendo il romanzo,  Marta non è una ragazza che si arrende:  anche nei momenti più bui, riesce, metabolizzato lo sconforto, a reagire contando sulle proprie risorse e sulle proprie competenze:

“Avevo un enorme potere: raccontare agli altri la vicenda. Raccontarla avrebbe fatto bene”.

Nasce così il diario online che libera Marta dall’isolamento imposto dal Covid  e la spinge alla condivisione della propria esperienza e della propria vita, tanto da divenire un simbolo, fino a vincere la lotta contro un sistema cieco e irrazionale.

La scelta di un diario online non è stata casuale:  infatti, Marta, nonostante i limiti fisici imposti dalla malattia, si è laureata a Ferrara in Scienze e tecnologie della comunicazione, è diventata una social media manager. Di fatto, svolge la  professione di consulente e formatrice freelance con  attività online. Anche il romanzo è nato da questa sua esperienza ed è stato sostenuto dalla comunità di Twitter sulla quale ha tantissimi follower, così come nella sua pagina  Instagram dove di sé scrive: “Ascolto libri, combatto ingiustizie e creo rose di carta pesta”.

Essere donne senza perdere la propria interezza

(pag. 224)

Ci sono libri che arrivano  quasi per caso, non cercati. Forse proprio per questo, come un dono inatteso, si rivelano preziosi e cari perché giungono al momento giusto. Così è “La Sibilla”, biografia di Joyce Lussu, donna modernissima, dalla vita straordinaria, che si è spesa, fino alla fine, per la liberazione politica  e culturale di donne e uomini del Novecento.

Non si può dunque affidare al caso la lettura della Sibilla, soprattutto in questo particolare momento storico,   in cui i sintomi di un rinato nazionalismo accompagnato da conati di autoritarismo, esercitato con disinvolta tracotanza, minacciano quanto Joyce è riuscita a costruire con abnegazione, assieme al marito Emilio Lussu e a decine di donne e uomini, schierati contro i regimi nazifascisti.

Di nobili origini, nata e cresciuta in un ambiente anticonformista, ma culturalmente molto stimolante, Joyce Lussu non si è mai lasciata intimidire dalla violenza fascista, subita insieme alla propria famiglia. Non ha mai perso la determinazione e il coraggio necessari a portare avanti missioni segrete  non solo in Europa, spendendosi per falsificare documenti d’identità e lasciapassare; nel trasporto di documenti e armi;  sottoponendosi ad addestramenti militari, come, se non meglio di un uomo.

 L’incontro con Emilio Lussu, fondatore di Giustizia e Libertà, di cui nel libro è raccontata anche la rocambolesca fuga dal confino di Lipari, non poteva non concretizzarsi in un comune progetto politico ed in una relazione sentimentale, sempre solida, nonostante le difficoltà, le rinunce (Joyce fu costretta ad abortire, rimasta incinta del primo figlio, rischiando la depressione), i rischi. Non poteva non trasformarsi in un rapporto simbiotico, così forte, che, racconta Joyce in “Fronti e frontiere”, uno dei suoi preziosi scritti:

La biografia di Joyce Lussu è anche la storia dell’Italia antifascista e, dopo il 25 aprile, la storia dell’Italia democratica. È soprattutto, e non a caso, la storia delle donne che hanno contribuito alla nascita dell’Italia moderna e democratica. È  anche (o soprattutto) la storia della loro emancipazione per la qual Joyce si è spesa con tutta se stessa. Sebbene bisognerà aspettare gli anni Settanta prima di conoscere il ruolo di queste donne, confinate, dalla storiografia e dalla pubblicistica, in ruoli minori, nelle retrovie. Eppure erano donne “intere”, aggettivo utilizzato da Joyce per raccontare Elisabetta, una donna sarda, conoscitrice di erbe e guaritrice, l’ultima Sibilla barbaricina.

Un carcere non è una casa

Ci sono romanzi che fai fatica a leggere, che saresti tentata di chiudere e andare oltre, ma che ti impediscono di farlo, costringendoti a proseguire, fino all’ultima pagina, magari sperando in un evento improvviso capace di sciogliere il grumo di dolore e offrire un lieto fine. Sofferto, ma comunque lieto.

“Almarina” rientra senza dubbio tra questa tipologia di romanzi.

Si tratta di “romanzi disturbanti”, come sono solita definire quelle narrazioni capaci di rivelarti un mondo che sai esistere, ma comunque lontano e di cui difficilmente entreresti a fare parte. Valeria Parrella, invece, ti conduce in quella realtà a te estranea con forza impietosa, rivelandoti la precarietà comune a tutti noi umani, insieme a Elisabetta Maiorano, la protagonista del romanzo.

Una donna non più giovane che ha sperimentato sulla propria pelle quella precarietà, ed è capace di individuarla e comprenderla nelle persone intorno a sé, riuscendo a darle un nome e a farsene carico. Insegnante di Matematica, svolge la propria professione a Nisida, nel carcere minorile ospitato dall’omonima isola  nel Golfo di Napoli, di fronte  a Posillipo il cui legame è narrato dal mito.

Nisida infatti prende il nome dalla ninfa che rifiutando l’amore del giovane Posillipo lo costrinse a morire in mare. La crudeltà della ninfa sembra dare forma al carcere minorile che si innalza come un ossimoro in un posto incantevole, quasi un locus amenus, ma di fatto luogo di privazioni.  

Valeria Parrella conosce bene l’organizzazione del carcere minorile per avervi svolto dei laboratori di scrittura creativa, come emerge dalla lettura del romanzo, ma anche per il proprio impegno a favore dei diritti dei detenuti.

Tra i ragazzi reclusi arriva Almarina, adolescente romena, giunta in Italia assieme al fratellino per sfuggire alla violenza del padre che, dopo averla abusata, l’ha quasi uccisa di botte. La ragazza porta addosso, e nell’anima, i segni della violenza paterna, ma anche degli abusi di altri  uomini, incontrati durante il viaggio. Tra Elisabetta, incapace di rimanere indifferente di fronte al vissuto della ragazza, e  Almarina  nasce un legame profondo che si concretizza nella scoperta di un comune sentire, in una quotidianità, appena abbozzata e subito interrotta. Un legame che la separazione non riesce a spezzare e spingerà Elisabetta a tentare di scrivere una nuova pagina per sé e Almarina.

Sarà possibile? La Parrella ci regalerà il lieto fine come nelle fiabe?

Rispondo subito alle domande: “Almarina” non è una fiaba e non si conclude  con “vissero felici e contenti”, il lettore, però, potrà immaginare la conclusione che sente più congeniale. Per quanto mi riguarda, io la mia non l’ho ancora raffigurata. Eppure ci penso già da qualche giorno.

Conta amare non essere amati

Lo sapevate che il battito del cuore ha tanti suoni quanti sono le lingue del mondo? In basco è bun-bun-bun, ma si trasforma in panp-pnap, se batte nervosamente.  In Giappone, dove si svolge la storia al centro del romanzo, un cuore emozionato fa doki doki, ma se è calmo diventa toku toku. In Italia è tu tump. Si potrebbe continuare ancora, ma già questo può bastare per individuare il senso della lunga elencazione  che Laura Imai Messina affida al protagonista: tutti abbiamo un cuore, ma ciascuno lo sente  in maniera diversa.

Shūichi è,  autore   di libri per bambini, che disegna e scrive, decide, dopo la morte della madre di lasciare Tokio per trasferirsi nella casa della propria infanzia a Kamakura alla ricerca del sé che sente perduto. Per anni, ha cercato conferme sui ricordi più brutti della propria infanzia, con decisione negati dalla madre e attribuiti al suo estro narrativo, presente fin  dalla fanciullezza. Shūichi  ha finito con l’arrendersi alle  bugie inventate dalla madre per proteggerlo dal dolore, perché convinta che per essere felici bisogna immaginare la felicità.

Purtroppo, però, l’amore di una madre non può essere sufficiente contro i dolori della vita, soprattutto quelli vissuti da adulti. Lo sa bene Shūichi  costretto a fare i conti con la memoria del suo passato, lontano e recente, che non gli ha risparmiato sofferenze non solo fisiche.    Il ritorno a Kamakura segnerà per Shūichi un nuovo lento inizio, assai diverso da quello che aveva immaginato, grazie a Kenta, un bambino di appena otto anni che gli svelerà molto di sua madre. Ma non solo.

Avrà modo di conoscere Sayaka, incontrata molte volte e subito dimentica, saggia e delicata,capace di mostrare a Shūichi le verità che non riesce a vedere, a condurlo lungo la strada della consapevolezza che il proprio cuore può battere all’unisono con quello di un altro, come in una sinfonia. Fino alla scoperta fatta su “L’isola dei battiti del cuore” dove riuscirà a venire a capo di un piccolo mistero, quasi dimenticato.

Questo  di Laura Imai Messina è un romanzo che si legge d’un fiato: la narrazione procede con la levità di una fiaba, ma riesce a scavare dentro l’animo umano, a cercare significati, a comprendere ciò che rimane del nostro passaggio sulla terra.  Particolarmente interessanti, poi, si rivelano le spiegazioni di alcuni ideogrammi la cui complessità grafica è il risultato di significati profondi che ciascuna parola porta con sé.

Una guerra senza eroi

È facile, quando si legge o  si racconta di guerra,   scivolare  nella retorica dell’eroismo, del sacrificio consumato per un interesse superiore, a rischio della propria vita.  Adania Shibli ne è consapevole e nella prima parte di  Un dettaglio minore sembra quasi spingere il lettore  verso questa retorica. Lo fa accompagnandolo nel deserto del Negev a conoscere un  comandante israeliano le cui giornate si consumano, con ritmo lento,  nel monotono ripetersi di azioni sempre uguali. La giornata del protagonista si dipana tra attività di ricognizione nel deserto, al confine con l’Egitto, ordini ai soldati, igiene personale e medicazioni ad una gamba, per una infezione causata dalla puntura di un ragno e trascurata per portare avanti il proprio incarico.

È proprio questo dettaglio che spinge, pericolosamente, il lettore a solidarizzare con il comandante viene visto nella propria umanità, anche più intima. Fino a quando, nel corso di una perlustrazione, non viene individuata una carovana di beduini massacrati insieme ai propri dromedari. Si salva una ragazza, condotta, come prigioniera, nel campo e la cui sorte è tragicamente segnata: il comandante si macchia di un crimine diffusissimo in guerra.   

Adania Shibli  lo racconta con la  pacatezza e il distacco che troviamo nell’intera narrazione, trasformando l’eroe in carnefice, distruggendo ogni retorica edulcorante, mostrando il vero volto della guerra.

 I fatti della prima parte del romanzo si svolgono nell’agosto del 1949 (l’anno successivo la  guerra arabo israeliana che  causò l’espulsione di 700.000 palestinesi) e   assumono i colori tragici della contemporaneità nel racconto di una guerra che si ripete ciclicamente, senza soluzione di continuità e che, nei periodi di apparente pacificazione, si impone con posti di blocchi, divieti, restrizioni subite dai palestinesi e documentati da Adania Shibli, nella seconda parte di “Un dettaglio minore”, in un contesto apparentemente diverso. La narrazione, infatti, ci porta  nella nostra epoca con protagonista una giovane donna colpita dalla  vicenda della ragazza del deserto,  portata alla luce da un giornalista assieme ad una fatale coincidenza: la ragazza vittima della violenza di gruppo, venne uccisa e seppellita nel deserto, proprio nel giorno in cui nacque la donna palestinese, esattamente venticinque anni prima.

Così la giovane donna decide di lasciare la propria città , combattere contro la paura fino a superare blocchi militari, geografici, fisici, psicologici e mentali. Blocchi da cui i palestinesi sono schiacciati e ai quali possono ribellarsi solo mettendo a rischio la propria vita.

Il viaggio intrapreso dalla giovane donna palestinese si trasforma in una lenta conferma, l’ennesima, della sistematica e impietosa cancellazione della Palestina:

“di palestinese non è rimasto niente, né i nomi delle città e dei villaggi sui cartelli stradali, né i cartelloni pubblicitari i cui slogan so o tutti scritti in ebraico, neppure gli edifici di nuova costruzione, o perfino i vasti campi che si estendono fino all’orizzonte”.

Pubblicato nel 2021, per la Nave di Teseo, il romanzo ci conduce dentro la desolante quotidianità fatta di sopraffazione, tensione minacciosa, intimidazione e divieti. Una quotidianità estremamente precaria come dimostrano i recenti eventi e la cronaca contemporanea.