Animali sociali o monadi narcisiste?

Per natura noi esseri umani – donne e uomini che vivono nello spazio  e nel tempo – siamo animali sociali. Come già aveva affermato Aristotele nel IV secolo a.C., costruiamo la nostra personalità, il nostro essere, nella relazione con i nostri simili, nel confronto con gli altri; col vivere a contatto con il mondo naturale,  nella sua totalità e complessità. La nostra felicità – non l’appagamento becero che nasce dall’affermazione sterile di un sé capriccioso e volubile – scaturisce dalla pienezza della vita che è possibile quando ci incontriamo e ci riconosciamo, vicendevolmente pur nelle differenze, nella  condivisione di obiettivi comuni da  realizzare insieme. È, infatti, la relazione con gli altri che rende attiva la mente e l’inconscio; perché nel rapporto con gli altri scaturiscono pensieri ed emozioni, quanto, cioè, ci distingue dagli altri viventi.

Il “malessere del mondo moderno” – analizzato scientificamente  da Paolo Inghilleri – sarebbe, dunque, figlio dell’isolamento cui conduce la contemporaneità, fatta di relazioni virtuali che spesso, sempre più spesso e per un numero sempre più ampio di individui  soprattutto giovani, hanno sostituito le relazioni sociali. Vero è che per molti i rapporti virtuali sono espressione di socialità, ma si tratta di un errore che può avere conseguenze negative ed essere causa di un disagio psichico che si manifesta con ansia e depressione, ma può condurre anche a malesseri più profondi. È certo, infatti, che la socialità non può essere limitata a relazioni a distanza, virtuali, mediate dalla tecnologia, che riducono la società a  “somma di monadi narcisiste”  (per usare l’espressione di Vittorio Gallese che Inghilleri cita nel proprio saggio, pag. 47).

Quella umana, tuttavia, è una macchina perfetta, capace di auto guarirsi, almeno dal disagio psicologico lieve: dopo avere analizzato le cause del malessere che caratterizza il nostro tempo e i fattori che ci proteggono, Inghilleri individua i “meccanismi psicologici che abbiamo già a disposizione” e che funzionano nella misura in cui acquisiamo la consapevolezza che dal nostro agire dipende la nostra salute fisica e mentale.

“La caduta del linguaggio è la caduta dell’uomo”

La parola è l’atto creativo per eccellenza quello che rende l’uomo simile a Dio, come leggiamo nel mito biblico quando Adamo riceve l’incarico di dare il nome a tutti gli animali del mondo appena creato. Quest’atto nobile, che ci dovrebbe innalzare al di sopra delle bestie, può diventare strumento di sottomissione, di manipolazione delle coscienze, di limitazione della libertà di ciascuno. Lo ricorda la storia, più o meno recente (si pensi al nazifascismo, ma anche ad altri autoritarismi), lo dice in maniera assillante la nostra quotidianità, dominata dalla parola attraverso i social network dove chiunque può arrogarsi il diritto di esprimere il proprio punto di vista su argomenti che sconosce ed in merito ai quali non ha competenze, né conoscenze.  Tuttologi del niente che creano confusione e disordini, come è noto a tutti, dai quali possiamo difenderci  soltanto affinando la capacità di leggere oltre il significato letterario, esercitando la competenza  critica per non essere trascinati dalla corrente del populismo becero e dal qualunquismo.

Si tratta di un libro di facile lettura (pur trattandosi di un  saggio) che l’autore definisce “Un’antologia anarchica. Una ricerca di senso”. Perché c’è sempre un senso, più o meno celato, in quello che succede intorno a noi. Un senso che le parole cercano di nascondere, di alterare, quando sono utilizzate in maniera errata, strumentale.

Un esempio, forse nemmeno il più eclatante, è relativo all’uso del termine “lodo”: era il 2003 quando venne approvata la legge 140, nota come “lodo Schifani”, una delle tante leggi ad personam del periodo, il cui fine era – come ricorda Carofiglio – “impedire la celebrazione di ogni processo a carico dell’imputato Berlusconi”.

La legge, dichiarata anticostituzionale con sentenza della Consulta (13 marzo 2004), viene indicata come un esempio “di manipolazione orwelliana del linguaggio” per l’uso del tutto inappropriato di lodo. Citando il Devoto-Oli, Carofiglio ricorda che “il lodo è una formula di transazione o di compromesso in una controversia, proposta da una persona di riconosciute imparzialità e autorevolezza”. Elementi, sottolinea l’autore, completamente assenti nella legge Schifani. Il problema, non certo irrilevante, è che l’incongruenza nell’uso di lodo non venne rilevata da nessuno, nemmeno dalle opposizioni. Si consumò, così, un’azione di “manipolazione dell’opinione pubblica” attraverso una “mossa tanto spregiudicata quanto efficace” che attenuava gli effetti dell’intervento normativo.

La nuova manomissione delle parole in maniera lucida, essenziale ed esemplificativa ricostruisce  episodi come quello appena ricordato (quasi un simbolo della resistibile conquista del linguaggio – e dunque della politica – realizzata dalla destra nel nostro Paese negli ultimi trent’anni), anche molto recenti, regalandoci una sintesi opportuna ed essenziale con la consapevolezza che:

le parole sono anche atti, dei quali è necessario fronteggiare le conseguenze