Malati di normalità

Giorgio, gigante disperato ed aggressivo, ha dentro di sé il bambino che aveva salutato la madre, uscita per andare a fare la spesa e  portata via dalla morte “senza avvertire nessuno, senza salutare”. Sul suo corpo porta i segni delle ferite che si è procurato ricordando quel giorno che ha segnato la sua vita, condizionando il suo rapporto con il mondo.

Alessandro , finita la scuola media, ha iniziato a lavorare con il padre per imparare il mestiere da muratore. Un giorno, in padre lo invita a tirare su un tramezzo e si allontana, convinto di fargli un regalo, offrendogli la possibilità di misurarsi con un lavoro importante. Al suo ritorno, però, il padre lo trova immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto, perso in una dimensione dalla quale non riesce a tornare, nonostante i tentativi di scuoterlo. Vive come un vegetale, estraneo a tutto ciò che lo circonda.

Gianluca non riesce a fare accettare la propria diversità alla madre che la considera una malattia vergognosa da curare a forza di trattamenti sanitari obbligatori (TSO) che per lui rappresentano una vacanza dalla “normalità”, uno spazio di libertà in cui muoversi senza i condizionamenti materni.

Sono alcuni dei personaggi con cui Daniele trascorre una intera settimana nel reparto di psichiatria dove  viene ricoverato  in TSO per un’esplosione di rabbia che ha quasi provocato la morte del padre. Un’esperienza che lo ha segnato profondamente e che ha rappresentato il momento parossistico di un disagio esistenziale che lo aveva portato ad affidarsi a diversi medici le cui cure si erano rivelate inutili.

Contrariamente a quanto credeva Daniele (il Daniele del TSO) non serve la chimica a curare la malattia dell’anima.

Malattia che nasce dal disagio di fronte  al dolore del mondo.

Malattia che nasce dalla difficoltà di accettare con indifferenza la sofferenza di una umanità che porta su di sé il peso della vita, come una condanna.

Malattia che nasce dalla  necessità di dare un senso all’esistenza che si scopre effimera e che richiede “salvezza”.

“Salvezza. Per me.

Per mia madre all’altro capo del telefono.

Per tutti i figli e tutte le madri.

E i padri.

E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri.

La mia malattia si chiama salvezza, ma come?

A chi dirlo?”.

La vita, con le sue complicazioni, le sue delusioni, le sue amarezze, non pesa solo sui “pazzi”. Anche coloro che non manifestano la malattia mostrano ad un occhio attento (com’è quello di Daniele) il peso che grava sulle loro spalle. Così, ad esempio, Luciano, uno degli infermieri del reparto psichiatria dal quale, appena arrivato Daniele vorrebbe sfuggire, ma dove scoprirà il valore dell’amicizia, della solidarietà incondizionati, della pietà, della comprensione che ci portano a fare nostri il dolore degli altri.

“Non aprirsi mai alla pietà, svuotare l’uomo sino a farlo diventare un ingranaggio di carne.

Sentirsi padroni di tutte le risposte.

È questa la normalità?

 La salute mentale?

La vera pazzia è non cedere mai.

Non inginocchiarsi mai”.

Candidato al Premio Strega 2020, “Tutto chiede salvezza” non è semplicemente un romanzo.

Non è semplicemente un romanzo esistenziale.

È un dono che l’autore fa a noi lettore.

È il dono di un’esperienza drammatica e dolorosa che viene condivisa come dono per comprendere gli altri,   imparare a leggere dentro l’animo delle persone che incontriamo e (perché no?) anche dentro il nostro.