Il romanzo come nostos, ritorno a ciò che è perduto

“Amavamo i punti di passaggio. E forse, adesso che ci penso, quello fu Roma per me: una tappa intermedia imprevista e periferica che all’improvviso diventa l’aster della vita, l’interludio che soppianta il prima e il dopo. Roma non aveva mai chiesto di essere amata e [ …] non avrei capito di amarla o di volerla amare finché non fossi stato sul punto di perderderla”. (p. 335)

È il 1967 quando André Aciman, ancora adolescente, arriva in Italia assieme al fratello minore e alla madre sorda. La sua famiglia è tra le ultime a lasciare Alessandria d’Egitto, perché espulsa, al pari degli altri, dal governo nazionalista di Nasser in quanto ebrei sefarditi. L’arrivo in Italia riserva al giovane Aciman non poche delusioni: l’approdo al porto di Napoli; l’incontro con lo zio paterno Claude, emigrato già da diversi decenni e considerato (il lettore scoprirà se a ragione) un “orco” dall’intera famiglia; il passaggio al  campo profughi, fino all’arrivo a Roma per abitare in un appartamento messo a disposizione dallo zio e lontano anni luce dalla Roma affascinante e carica di storia che il protagonista aveva sognato.

Quella che diventerà la casa romana della famiglia Aciman sorge infatti in via Clelia, in un quartiere popolare che il giovane André rifiuterà e di cui si vergognerà. Fino al punto di mentire ai compagni dell’importante scuola americana che frequenta con il fratello.

“Avevo creduto che, appena fossi sbarcato in Italia, ogni cosa di me sarebbe stata cancellata. Mi sarei dimenticato chi ero o quello che avevo imparato in Egitto. Invece, con mio grande stupore, mi accorsi che, nonostante mi fossi trasferito da una sponda all’altra del Mediterraneo, non era cambiato nulla. Restavo lo stesso di qualche giorno prima, non ero svanito. Volevo dimenticare chi ero, voltare pagina, diventare un individuo nuova. Ma rimanevo quello di sempre e non ne ero felice.”(p.23)

André dunque inizia la sua esperienza italiana schiacciato da sentimenti negativi amplificati dalla consapevolezza di cambiamenti nella propria vita ed in quella delle persone a lui più care più che negativi. Mentre ad Alessandria vivevano nell’agiatezza, gli Aciman si ritrovano   ad affrontare difficoltà economiche e a dovere calcolare minuziosamente ogni singola spesa. A ciò bisogna aggiungere la consapevolezza di vivere in una famiglia disfunzionale (come diremmo noi oggi) a causa del profondo e insanabile conflitto tra i genitori che, pur rimanendo formalmente sposati, vivono di fatto da separati. Inoltre, mentre il fratello e la madre riescono a inserirsi nel nuovo quartiere, facendo amicizia con i nuovi vicini, Andrè si chiude nel proprio mondo, fatto di letture, ma anche di lunghe passeggiate alla scoperta di Roma che, poco alla volta, lo porteranno e scoprire la bellezza immaginata e a innamorarsi della città.

Fino al punto di temere il trasferimento a New York, tanto desiderato e per il quale si era tanto adoperato, per frequentare il l’Hunter College. Il trasferimento negli USA, vinte le resistenze anche paterne, viene quindi accolto ed organizzato come un passaggio, un evento temporaneo, necessario ad André per continuare gli studi universitari, dopo i quali la famiglia avrebbe dovuto fare ritorno in Europa. Parigi, infatti, contrariamente a quanto avvenuto con Roma aveva subito fatto innamorare Andrè  al punto da desiderare viverci.

Non accadrà: l’arrivo a New York sarà per la famiglia Aciman definitivo, ma il legame di Andrè con Roma (e forse anche con la via Clelia) sarà indissolubile, come testimoniano i continui ritorni e le passeggiate assieme alla moglie e ai figli, lungo le vecchie strade della sua adolescenza, in un nostos, un ritorno ad un passato cancellato per sempre.

“Anche quando, qualche anno dopo, ci tornai con uno dei miei figli, ormai adulto, il nostro vecchio appartamento non mi disse nulla; mi ricordavo tutto, ma non provavo nessuna emozione. Suonai il campanello quattro volte, ma neppure questo smosse qualcosa dentro di me, e quando chiesi ai nuovi proprietari se i termosifoni funzionavano, mi risposero di si, sempre, e mi dissero anche le finestre non si rompevano” (pag. 379)

Il “romanzo” di formazione di un Nobel

“Com’era vasto il mondo, e com’era ricco di varia umanità e strani accadimenti! E com’era alto il cielo sopra i tetti! E com’era profonda la terra sotto le pietre del selciato! E perché uomini e donne si amavano? E dov’era Dio, di cui si parlava sempre in casa nostra? Ero meravigliato, felice, estasiato. Sentivo di dover risolvere quell’enigma da solo, con la mia intelligenza” (pag.85)

Ci sono scrittori che hanno il potere di condurti nel loro mondo e di farti sentire parte di esso. Un mondo a te ignoto, perché storicamente e culturalmente lontano, che rappresenta una scoperta, sempre nuova e preziosa, ma di diventi parte, grazie all’abilità del narratore.

Isaac Bashevis Singer (premio Nobel per la Letteratura nel 1978) appartiene a questa categoria di scrittori. Qualcuno potrebbe obiettare che per lui è stato facile, avendo avuto il vantaggio e il  privilegio di vivere in una famiglia fuori dal comune, capace di ispirare pagine memorabili di letteratura nelle quali l’esperienza personale si erge a paradigma di una vita fuori dall’ordinario. Il padre, Rabbino in via Krochamalna, a Varsavia, svolgeva il proprio lavoro in casa: nel suo studio si celebravano matrimoni, banchetti chassidici; si studiava e si pregava, ma soprattutto si cercava di dirimere i conflitti più disparati tra personaggi di ogni tipo, attraverso la saggezza derivata dalla Torah di cui era interprete.

Ebreo puritano e pio, il Rabbino Singer, noto esempio di integrità e sobrietà, svolgeva il proprio lavoro con accanto il giovane Isaac che, tra le mura di casa, viveva l’esperienza di un mondo ancorato al passato, mentre fuori era in atto un cambiamento profondo, causa, tra l’altro, di conflitti familiari. Espressione del nuovo era, ad esempio il fratello maggiore Israel Joshua (anch’egli scrittore) schieratosi presto contro la rigida osservanza paterna:

“Eravamo gli eredi di un codice eroico non ancora descritto nella letteratura yiddish, la cui essenza consisteva nella capacità di sopportare le sofferenze per amore della purezza spirituale” (pag. 205).

Il mondo esterno, infatti, era abitato da una enorme quantità di gente che non condivideva gli ideali dell’anziano rabbino e della moglie, costretta a confrontarsi quotidianamente con la via Krochmalna e verso la quale provava un profondo sentimento di estraneità, amplificato dalla mancanza di denaro. 

Inoltre, alle difficoltà culturali della famiglia si affiancavano quelle economiche, da tutti affrontati con eroico stoicismo:

“Io andavo in giro con un caffettano che mi stava piccolo. Ogni tanto ricevevo un nuovo capo di vestiario, però solo quando quello vecchio era ridotto a brandelli”.

Presto, il giovane Isaac cominciò ad avvertire lo iato, sempre più profondo, tra il vecchio mondo dei genitori e il nuovo, abbracciato dal fratello. Infatti, mentre i genitori rimanevano fedeli a un ebraismo rigido e per questo respinto da molti, i figli sperimentavano le contraddizioni e le falsità dei numerosi personaggi che frequentavano la loro cara, per essere ascoltati dal padre, e la cui condotta di vita era lontana dalle prescrizioni della legge ebraica. Questa, per molti, era uno strumento per avere conferme ai propri comportamenti e sopraffare l’avversario. Furberie, meschinità, cupidigia, ipocrisia si manifestavano sempre con maggiore frequenza provocando, soprattutto in Israel Joshua, il rifiuto di un mondo a cui sentiva di non appartenere, ma (ed è questo l’elemento più significativo) non voleva più appartenere.

“Mio fratello … a causa delle sue idee emancipate, trovava difficile parlare con mio padre, che gli rispondeva sempre: Miscredente! Nemico di Israele!” (pag. 224)

Fu la guerra ad imprimere una svolta decisiva alla vita della famiglia Singer e a tutta la comunità ebraica, sebbene, dopo l’attentato di Sarajevo, si fosse diffusa la speranza di un cambiamento, di un miglioramento di fatto negato da eventi drammatici che avrebbero segnato un’epoca.

Conta amare non essere amati

Lo sapevate che il battito del cuore ha tanti suoni quanti sono le lingue del mondo? In basco è bun-bun-bun, ma si trasforma in panp-pnap, se batte nervosamente.  In Giappone, dove si svolge la storia al centro del romanzo, un cuore emozionato fa doki doki, ma se è calmo diventa toku toku. In Italia è tu tump. Si potrebbe continuare ancora, ma già questo può bastare per individuare il senso della lunga elencazione  che Laura Imai Messina affida al protagonista: tutti abbiamo un cuore, ma ciascuno lo sente  in maniera diversa.

Shūichi è,  autore   di libri per bambini, che disegna e scrive, decide, dopo la morte della madre di lasciare Tokio per trasferirsi nella casa della propria infanzia a Kamakura alla ricerca del sé che sente perduto. Per anni, ha cercato conferme sui ricordi più brutti della propria infanzia, con decisione negati dalla madre e attribuiti al suo estro narrativo, presente fin  dalla fanciullezza. Shūichi  ha finito con l’arrendersi alle  bugie inventate dalla madre per proteggerlo dal dolore, perché convinta che per essere felici bisogna immaginare la felicità.

Purtroppo, però, l’amore di una madre non può essere sufficiente contro i dolori della vita, soprattutto quelli vissuti da adulti. Lo sa bene Shūichi  costretto a fare i conti con la memoria del suo passato, lontano e recente, che non gli ha risparmiato sofferenze non solo fisiche.    Il ritorno a Kamakura segnerà per Shūichi un nuovo lento inizio, assai diverso da quello che aveva immaginato, grazie a Kenta, un bambino di appena otto anni che gli svelerà molto di sua madre. Ma non solo.

Avrà modo di conoscere Sayaka, incontrata molte volte e subito dimentica, saggia e delicata,capace di mostrare a Shūichi le verità che non riesce a vedere, a condurlo lungo la strada della consapevolezza che il proprio cuore può battere all’unisono con quello di un altro, come in una sinfonia. Fino alla scoperta fatta su “L’isola dei battiti del cuore” dove riuscirà a venire a capo di un piccolo mistero, quasi dimenticato.

Questo  di Laura Imai Messina è un romanzo che si legge d’un fiato: la narrazione procede con la levità di una fiaba, ma riesce a scavare dentro l’animo umano, a cercare significati, a comprendere ciò che rimane del nostro passaggio sulla terra.  Particolarmente interessanti, poi, si rivelano le spiegazioni di alcuni ideogrammi la cui complessità grafica è il risultato di significati profondi che ciascuna parola porta con sé.

Una guerra senza eroi

È facile, quando si legge o  si racconta di guerra,   scivolare  nella retorica dell’eroismo, del sacrificio consumato per un interesse superiore, a rischio della propria vita.  Adania Shibli ne è consapevole e nella prima parte di  Un dettaglio minore sembra quasi spingere il lettore  verso questa retorica. Lo fa accompagnandolo nel deserto del Negev a conoscere un  comandante israeliano le cui giornate si consumano, con ritmo lento,  nel monotono ripetersi di azioni sempre uguali. La giornata del protagonista si dipana tra attività di ricognizione nel deserto, al confine con l’Egitto, ordini ai soldati, igiene personale e medicazioni ad una gamba, per una infezione causata dalla puntura di un ragno e trascurata per portare avanti il proprio incarico.

È proprio questo dettaglio che spinge, pericolosamente, il lettore a solidarizzare con il comandante viene visto nella propria umanità, anche più intima. Fino a quando, nel corso di una perlustrazione, non viene individuata una carovana di beduini massacrati insieme ai propri dromedari. Si salva una ragazza, condotta, come prigioniera, nel campo e la cui sorte è tragicamente segnata: il comandante si macchia di un crimine diffusissimo in guerra.   

Adania Shibli  lo racconta con la  pacatezza e il distacco che troviamo nell’intera narrazione, trasformando l’eroe in carnefice, distruggendo ogni retorica edulcorante, mostrando il vero volto della guerra.

 I fatti della prima parte del romanzo si svolgono nell’agosto del 1949 (l’anno successivo la  guerra arabo israeliana che  causò l’espulsione di 700.000 palestinesi) e   assumono i colori tragici della contemporaneità nel racconto di una guerra che si ripete ciclicamente, senza soluzione di continuità e che, nei periodi di apparente pacificazione, si impone con posti di blocchi, divieti, restrizioni subite dai palestinesi e documentati da Adania Shibli, nella seconda parte di “Un dettaglio minore”, in un contesto apparentemente diverso. La narrazione, infatti, ci porta  nella nostra epoca con protagonista una giovane donna colpita dalla  vicenda della ragazza del deserto,  portata alla luce da un giornalista assieme ad una fatale coincidenza: la ragazza vittima della violenza di gruppo, venne uccisa e seppellita nel deserto, proprio nel giorno in cui nacque la donna palestinese, esattamente venticinque anni prima.

Così la giovane donna decide di lasciare la propria città , combattere contro la paura fino a superare blocchi militari, geografici, fisici, psicologici e mentali. Blocchi da cui i palestinesi sono schiacciati e ai quali possono ribellarsi solo mettendo a rischio la propria vita.

Il viaggio intrapreso dalla giovane donna palestinese si trasforma in una lenta conferma, l’ennesima, della sistematica e impietosa cancellazione della Palestina:

“di palestinese non è rimasto niente, né i nomi delle città e dei villaggi sui cartelli stradali, né i cartelloni pubblicitari i cui slogan so o tutti scritti in ebraico, neppure gli edifici di nuova costruzione, o perfino i vasti campi che si estendono fino all’orizzonte”.

Pubblicato nel 2021, per la Nave di Teseo, il romanzo ci conduce dentro la desolante quotidianità fatta di sopraffazione, tensione minacciosa, intimidazione e divieti. Una quotidianità estremamente precaria come dimostrano i recenti eventi e la cronaca contemporanea.

A proposito dell’amore

“Ho passato l’infanzia e l’adolescenza a fare l’innamorata: sognavo la mia vita futura leggendo romanzi rosa, e gli unici film che ritenevo degni di nota erano quelli che mettevano in scena una storia d’amore più o meno complicata e felice, sempre passionale. Da ragazza ho continua a cercare il grande amore: fare l’amante non mi interessava nemmeno allora; l’amore senza legami lo trovavo insulso. Eppure, dopo aver avuto i miei figli, non sono mai passata alla tappa successiva. non ho mai cambiato categoria per diventare una madre. Così, pur facendo del mio meglio, la maggior parte del tempo sono troppo occupata a fare l’innamorata per essere una brava madre”.

(Pag.114)

Chi mi segue lo sa: non parlo mai di libri che non mi sono piaciuti, sebbene nel mio nuotare nel mare magnum dell’editoria, in particolare di quella italiana, ne incontri, fin troppo spesso,   brutti e scritti male. Tuttavia,  se parlo di “Mio marito” non significa che si tratti di un romanzo che ho amato o che mi sia particolarmente piaciuto. Anzi, ti devo confessare, caro lettore del mio blog, che dopo averne completato la lettura, già da parecchi giorni, ho provato un profondo senso di delusione assieme ad una acuta angoscia. Ti starai chiedendo, certamente, la ragione.

Si tratta, indubbiamente, di un libro scritto bene, leggibile e, almeno inizialmente, divertente. Se con fosse che, proseguendo nella lettura, pagina dopo pagina, cominci a sospettare che l’io narrante mostra i segni di una grave psicosi che andrebbe curata con metodi differenti da quelli che di fatto applica.

Scopri una donna che (pur avendo tutto: bellezza, ricchezza, cultura

– insegna inglese, part time, e svolge la professione di traduttrice – un marito elegante, raffinato, bello, due figli straordinari) è di fatto una psicotica, incapace di amare (nonostante le continue e ossessive dichiarazioni d’amore nei confronti del marito), egoista, fedifraga.

Certe trovate, che all’inizio potrebbero sembrare simpatiche, espressione di ordine sistematico (i quaderni tematici colorati) si rivelano per quello che sono: prove tangibili di una psicosi pericolosa ed inquietante. Ignoro, non ho voluto approfondire, se vi siano elementi autobiografici (qualcuno certamente), ma mi ha disturbata molto l’immagine del matrimonio che vien fuori alla fine del romanzo. Perché niente è mai come appare.

La conclusione, infatti, si rivela l’elemento devastante dell’intero romanzo: il matrimonio, direi meglio, più in generale, la relazione di coppia diviene una farsa, perché fondata sulla recita di ruoli che nascondono la reale natura dei protagonisti, la dipendenza psicologica, il godimento per punizioni e umiliazioni continue.

Quando i soldi non danno la felicità

Arriva  sempre nella vita di ciascuno il momento in cui bisogna abbandonare la gentilezza e tirare fuori la fermezza, mostrarsi duri e determinati, nonostante la propria indole. Si tratta, in molti casi, di un passaggio obbligato lungo la strada che dalla fanciullezza conduce alla maturità; un percorso non semplice, costellato da insidie che bisogna imparare a riconoscere ed evitare.

Così è per Gilles Mauvoisin, il “viaggiatore del giorno dei morti”, sbarcato a Rochelle, cittadina costiera del Nord del Francia, sull’Oceano Atlantico. Giunto  come clandestino da un cargo proveniente dalla Norvegia, Gilles  non sa che la sua vita cambierà radicalmente: del tutto fuori contesto, avvolto in un lungo cappotto nero, in testa un cappello di pelliccia, vagherà per le strade della città alla ricerca delle proprie radici: prematuramente orfano di entrambi  i genitori, ha raggiunto la Francia nel tentativo di rintracciare i parenti conosciuti soltanto dai racconti ascoltati nella fanciullezza. Ben presto, scoprirà di essere l’erede di una enorme eredità: una fortuna insperata, lasciatogli dallo zio Octave Mauvoisin, fratello del padre, ma appesantita da segreti che rischiano di imprigionarlo e schiacciarlo.

L’eredità di Octave Mauvoisin lo stava distruggendo.

Aveva paura di andare a fondo,

e non faceva nulla per evitarlo,

come fosse ineluttabile.

Parte dell’eredità ricevuta è la chiave di una cassaforte che potrà essere aperta soltanto individuando la combinazione,  una parola da scoprire per riuscire a fare luce sugli oscuri rapporti che legavano lo zio al sindacato. Una ricerca tutt’altro che semplice, causa di inquietudine per il protagonista, ma anche per il lettore di Simenon, narratore lontano dalle tortuosità acrobatiche di certa letteratura, ma capace di condurci tra le stradine fosche di Rochelle, legandoci empaticamente al protagonista.

Fino  alla conclusione: felice? Da elogiare o biasimare? Dipende dai punti di vista.

Inquieta fratellanza

Serge, colui che dà il titolo al romanzo, è il maggiore di tre fratelli – di origine ebraica e  oramai adulti – ciascuno dei quali porta con sé  il peso di una vita già vissuta, con il carico di errori e delusioni, di promesse mancate, di sogni non realizzati. La storia di Serge, apparentemente il più spregiudicato, intraprendente fin da ragazzo, capace di inventare attività lavorative puntualmente destinate al fallimento, è narrata da Jean, il secondogenito, che non ha mai brillato per iniziativa personale, è  cresciuto all’ombra del fratello e fin da ragazzo sembrava destinato all’anonimato.

“Io a mio padre non interessavo.

Ero il classico ragazzo senza grilli per la testa,

che a scuola si impegnava,

faceva ogni cosa come suo fratello

e non aveva la minima personalità”

Jean è un uomo generoso, disponibile nei confronti della famiglia, di amici e  parenti ormai vecchi e malati, pronto a donarsi – fino a  fare da padre al figlio della propria ex, un bambino problematico, che fatica a socializzare (autistico?) – ma incapace di cambiare la propria vita. Eppure è  consapevole di ciò che non funziona;  sa cosa dovrebbe fare per essere felice, ma non ne ha il coraggio. O, probabilmente, non vuole cambiare.

Infine, c’è Nana, la bimba vezzeggiata e amata da mamma e papà, la preferita, ma indipendente nelle scelte, soprattutto in quelle sentimentali, tanto da deludere tutti. Nana è una donnina petulante, ma appagata e, apparentemente, felice delle proprie scelte.

Nel romanzo il tema centrale, ma non certo l’unico e comunque non il più importante, può essere individuato nel rapporto tra i  fratelli. O, meglio ancora, in quel che rimane della famiglia d’origine (luogo di conflitti e incomprensioni, anche devastanti) quando i genitori scompaiono e i fratelli sono  diventati altro rispetto a quelli che condividevano gli spazi della fanciullezza, con tutto ciò che questo comporta. Ed è proprio sull’«altro» che esplodono i conflitti, anche insanabili, che mettono a dura prova i legami di fratellanza, perché, come dice Jean:

“I legami fraterni si sfilacciano,si disperdono,

finiscono per non ridursi ad altro

che a un sottile nastrino di sentimenti o conformismo”.

Per Serge, Jean e Nana le tensioni rischiano di implodere durante un viaggio ad Auschwitz-Birkenau intrapreso su richiesta di Joséphine, figlia di Serge, che sente il bisogno di vedere il luogo in cui i propri parenti sono stati tragicamente uccisi, insieme con altri milioni di ebrei. I tre fratelli si ritrovano così a fare i conti con la Storia in un contesto in cui emergono le contraddizioni della memoria, vissuta da taluni con fanatismo quando non con la superficialità del turista improvvisato.

Sono certamente queste le pagine più belle del romanzo nelle quali Yasmina Reza – parigina di origine ebraica, padre iraniano, madre ungherese – riesce a dare il meglio di sé, facendo emergere (senza retorici sentimentalismi) il dramma di milioni di bambini, donne e uomini.

Ed è sempre durante il viaggio che emerge la sofferenza ed il dolore di Serge che  – nell’indifferenza nei confronti di ciò che vede e nell’impazienza per l’entusiasmo della figlia e della sorella – mostra il tormento che accompagna la sua solitudine, abilmente mascherato nelle riunioni di famiglia.

La continua fiumana della vita

La  Marie Dudon, che con il suo scialle dà il titolo alla raccolta di racconti, è una donna provata dalla fatica  cui la costringe il bisogno, dopo il licenziamento del marito. Mentre lava i panni in due tinozze, poste su altrettante sedie davanti alla finestra, assiste a qualcosa di insolito che potrebbe trasformare la sua vita e quella della sua famiglia. Nel mettere in atto il piano, però, deve scontrarsi con la grettezza del marito, ignaro del suo progetto, il quale le impedisce di uscire sotto la pioggia con il cappotto e la scarpe nuove per non rovinarle. Così, Marie Dudon si ritrova avvolta nel miserrimo scialle madido di pioggia e le scarpe sformate e piene d’acqua, in una casa signorile, completamente fuori contesto. Consapevole della propria condizione di inferiorità, perde la forza e la capacità di contrattare e chiedere ciò che le necessita accontentandosi di briciole, ma riproponendosi di tornare in carica in tempi più favorevoli. Non ha però fatto i conti con la spregiudicata immoralità e attitudine criminale dell’antagonista.

Marie Dudon è soltanto uno dei personaggi che affollano i dieci racconti di questa preziosissima antologia in cui Simenon si rivela, anche nella narrazione breve, un profondo conoscitore e analista dell’animo umano, qui rappresentato e modellato con compiutezza, attraverso un numero vario e composito di uomini, donne e bambini trasportati dalla fiumana, inarrestabile, della vita.

Al fianco di Marie Dudon incontriamo la giovane Charlotte, entraîneuse della  Boule Rouge,  mentre  in compagnia di un cliente attraversa la Parigi notturna, tormentata dalla consapevolezza che al suo fianco cammina un famoso criminale. O ancora, il piccolo Corbion che assiste al disfacimento della propria famiglia e della sicurezza economica costruita sulla menzogna cui la frustrazione del bisogno può condurre. Aggiungiamo all’elenco la piccola Valérie: una domenica mattina scopre l’egoismo della   madre e delle sorelle che la costringono al sacrificio e mortificano i suoi sogni giovanili, ma deve prendere atto  che

“l’odore delle lacrime esiste solo per chi le versa”.

Altrettanto toccante è la vicenda della “vecchia coppia di Cherbourg”, ospiti dell’Hôtel des Deux-Continents, in attesa di un figlio in arrivo dall’America dove ha fatto fortuna. La loro (contadini che parlano una lingua incomprensibile che non riescono a pagare il conto, pur avendo in mano un assegno da milionari) presenza infastidisce i proprietari dell’albergo, fino a quando non ha la meglio l’avidità egoista, sempre in agguato nell’animo umano. Di certi uomini, almeno.

Il domani può non avere futuro

È il romanzo che ha aperto le pubblicazioni eccellenti del 2022, particolarmente atteso grazie alle  efficaci strategie editoriali, elogiato dai privilegiati che hanno avuto la possibilità di leggerlo in anteprima e che, senza mezzi termini,  hanno subito indicato “Annientare” come  il migliore romanzo di Houellebecq,  ormai giunto alla maturità narrativa.    

Il romanzo (un tomo di circa seicento pagine che scorrono veloci coinvolgendo facilmente, soprattutto nella seconda parte, il lettore) è ambientato in un futuro non molto lontano, ed ha per protagonista Paul Raison consulente politico di Bruno Juge, ministro dell’economia del governo francese, giunto ormai a fine mandato e costretto a tornare nell’agone elettorale.

I due uomini, a parte il lavoro, hanno in comune la solitudine e la delusione per matrimoni non proprio felici: Bruno, stanco dei continui tradimenti della moglie, di fatto vive nella sede del ministero, conducendo un’esistenza quasi monacale. Paul condivide ancora la casa con la moglie, ma le loro vite hanno intrapreso percorsi diversi e si incontrano raramente.

Siamo nel 1927, una serie di attentati terroristici di cui non si comprende la paternità, minaccia di compromettere la campagna elettorale, coinvolgendo direttamente Paul il quale, allo stesso tempo, è alle prese con una serie di travolgimenti personali che lo conducono lontano da Parigi, verso un nostos che non è un approdo sicuro, ma che, anzi, lo spinge ad un ulteriore ricerca.

La vita, la morte, la crisi della democrazia, il terrorismo, il digitale, facebook, il sesso, la famiglia, la malasanità e la sanità buona, la religione, le mode religiose, la scienza: sono i tanti temi di  “Annientare” che scava nelle contraddizioni della società contemporanea, ma anche nei drammi individuali. Houellebecq  riesce a condurre  il lettore attraverso le proprie paure, spingendolo in situazioni  temute, quando non già vissute, fino al colpo di scena conclusivo e all’epilogo devastante.

Un elemento è, forse, degno di nota: in “Annientare” non c’è memoria della pandemia mondiale, sebbene sia ambientato in un tempo non troppo lontano da quello attuale.

Quando l’infanzia non aveva voce

Narratrice e poetessa, Tove Ditlevsen è la scrittrice danese nota soprattutto per il suo impegno contro i soprusi e le violenze nei confronti dei bambini, oltre che per l’attenzione nei confronti della condizione femminile che in Infanzia assume i colori della confessione.

Primo volume della “Trilogia di Copenaghen” considerata l’evento letterario dell’anno, la trilogia è stata salutata come un capolavoro che si unisce al coro di voci femminili che, da diversi Paesi, hanno raccontato e denunciato la loro condizione.

Tove vive la propria Infanzia in un piccolo bilocale di Vesterbro,  quartiere operaio di Copenaghen, tra mille problemi causati, in particolare, dalle difficoltà economiche che la famiglia deve affrontare: il padre è  spesso senza lavoro a causa della propria militanza comunista. È lui che spinge Tove alla lettura, ma, quando la bambina gli confesserà  il sogno di diventare poetessa,  le dice, senza mezzi termini, che non è un lavoro da donne. Nonostante ciò, Tove continuerà a scrivere segretamente poesie su un quadernetto che nasconderà gelosamente per non essere derisa.

La sua formazione è affidata alla madre, rancorosa e distratta, incapace di accoglierla e comprenderla causa di una profonda sofferenza che la accompagnerà sempre:

Il mio rapporto con lei è stretto, doloroso, traballante,

e se voglio un segno d’affetto devo cercarlo io.

Qualunque cosa io faccia, la faccio per compiacere lei,

per farla sorridere, acquietare la sua rabbia.

A ciò bisogna aggiungere la difficoltà di comprendere il mondo degli adulti dai quali giungono mezze frasi e rivelazioni che Tove non riesce a decodificare: due mondi, quello di adulti e bambini nella prima metà del Novecento, che non riescono a incontrarsi, a causa di segreti che la bambina non comprende. Ci penserà la sua  amica  Ruth, bambina senza regole e spregiudicata, alla quale si accosta per il suo bisogno di essere accolta e considerata, a svelarle il mondo degli adulti. Tove, però, avverte una profonda distanza da Ruth, scavata ulteriormente dal tentativo di agire in maniera spregiudicata e libera come l’amica, ma condannandosi al fallimento  per la paura e l’insicurezza che le sono compagne.  

Con linguaggio semplice ed immediato, Tove Ditlevsen ci guida nel proprio mondo, dove:

“L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli”.

L’infanzia di Tove Ditlevsen si presenta come una condanna a cui “non si sfugge” perché “resta attaccata addosso come un odore”.

E’, di fatto, un’infanzia dolorosa, dalla quale osservare

“di nascosto gli adulti, la cui infanzia è seppellita in loro,

lacera e sforacchiata come un tappeto consunto e tarmato,

al quale nessuno pensa, e che non serve più.

A guardarli non si direbbe che ne abbiano avuta una”.