Gli inganni della memoria e le menzogne dell’infanzia

La formazione di molte donne a partire dalla generazione degli anni Cinquanta è avvenuta per sottrazione. Fin da bambine hanno lavorato per evitare di somigliare alle donne loro vicine, per liberarsi dall’iniquità cui  quelle donne erano costrette dal ruolo di mogli e madri, percepite come vittime infelici di un padre e marito visto come il  carnefice e, in quanto tale, indesiderato e poco amato. Così è stato per Donata, la protagonista de “La memoria del cielo” .

Per tutta l’infanzia Donata ha nutrito e cullato dentro di sé la convinzione, frutto di fantasia, di essere arrivata “dal mondo della luna” per salvare Teresa , di averla scelta come madre “per  andarle a dire, nascendo, che non tutto è così malvagio” e per liberarla dalla casa prigione in cui trascorre giornate intere a confezionare abiti per “le signore”.

Ormai adulta, Donata cerca di ricostruire attraverso la memoria gli anni della propria infanzia e adolescenza, provando a  mettere ordine ai ricordi, nel tentativo di ricostruire una verità impossibile da trovare perché: “I ricordi dell’infanzia non sono nostri: se nessuno ce li regala, non esistono. Per questo l’infanzia è una colossale menzogna, che raccontiamo prima di tutto a noi stessi”. (pag. 41)

Fin dai primissimi capitoli del romanzo, dunque, sembra che Donata voglia metterci in guardia sul valore da dare al suo racconto e sulla credibilità del suo narrare, fino a svelarci quanto i ricordi possano risultare ingannevoli, perché imprecisi se non addirittura sbagliati:

“Ce li portiamo tutta la vita dentro come se fossero tesori e poi?

Hanno la stessa sostanza della fantasia.

Assomigliano alle storie che c’inventiamo, né più né meno”. (pag. 171)

Donata adulta, quindi, sentirà il bisogno di apprendere il reale svolgimento dei fatti vissuti dalla propria famiglia per conoscere veramente  quel padre che aveva sempre rifiutato e condannato perché causa dell’infelicità di Teresa:

“Mi fu chiaro che dovevo difendere mia madre

anche dall’uomo che aveva sposato…” (pag. 80).

Attraverso i ricordi della fanciullezza, per quanto ingannevoli, Donata racconta i  cambiamenti dell’Italia del dopoguerra, l’Italia del boom economico reso possibile da quella che chiama “epica del sacrificio”, fondata su un eroismo fatto da  rinunce e privazioni che, certamente a lei erano risparmiate (per la bambina c’erano sempre a tavola la carne e il pesce), ma che non accettava. O meglio, la piccola Donata sentiva il bisogno del superfluo, di cui, sostiene “Non è vero che ne possiamo fare a meno”, nella convinzione che  “Concedersi le cose inutili è come fare un passo laterale e andarsene per i viottolini di campagna”. (pag. 119)  Grazie a quelle rinunce, però, oltre all’appartamento  i genitori di Donata poterono acquistare la lavatrice che permise a Teresa di liberarsi fatica del bucato a mano, pur non salvandola dal lavoro di sarta.

La notte delle verità

«Io non sono lui. Lui è morto» ringhiò il sosia.
«Sembrate molto simile, soprattutto nelle scempiaggini che dite»
«E se io fossi lui, voi cosa fareste?»

«Io non sono lui. Lui è morto» ringhiò il sosia.

«Sembrate molto simile, soprattutto nelle scempiaggini che dite»

«E se io fossi lui, voi cosa fareste?»

Può la vita di un uomo cambiare in una sola notte? Una notte lunga, dolorosamente lunga, durante la quale il protagonista di questo breve romanzo è costretto a fare i conti con il proprio passato, a fare luce sulla propria esistenza e prendere atto di una verità, di fatto chiara  a tutti, ma che non aveva mai saputo vedere. Una notte che Severino, questo il nome del protagonista, aveva immaginato in maniera diversa da quella che poi, di fatto, è stato costretto a vivere. Una notte che avrebbe dovuto portarlo a scrivere, in lettere di fuoco, il proprio nome sul libro della Storia, divenendo un eroe.

Quella di  Mario Landi è l’Italia tormentata e ferita dalla guerra contro il fascismo, culminata a Piazzale Loreto dove è stata scritta la parola fine con l’esposizione del corpo di Mussolini e Claretta. Questo ci ha raccontato la Storia  che all’epoca dei fatti del romanzo, però, era ancora cronaca. Il fascismo era appena caduto (sebbene oggi, ahinoi, non  sappiamo dire se lo abbiamo lasciato definitivamente dietro le nostre spalle), ma in molti giovani, e Severino è uno di questi, non si era ancora placato l’odio nei confronti di coloro che lo avevano sostenuto e ne erano stati i protagonisti, consapevolmente colpevoli.

Così, quando Severino scopre in maniera fortuita che il parroco dovrà accogliere un gerarca decide di sostituirsi al prelato per uccidere il fascista, vendicare la morte del padre, vittima del regime, riscattarsi come uomo che non ha potuto prendere parte alla guerra di resistenza per una menomazione fisica. Davanti a Severino, però, non ci sarà un qualunque gerarca, ma colui che sembra essere il duce in persona che dicevano morto e appeso al gasometro di  Piazzale Loreto. L’uomo racconta di essere il sosia che Mussolini avrebbe assoldato ed istruito per essere sostituito in alcune situazioni a lui poco gradite. Nel corso delle circa centocinquanta pagine del racconto, però, il dubbio che non sia il sosia, ma il duce stesso,  guadagna di tanto in tanto credibilità, assumendo la forma di un enigma che lasciamo sciogliere al lettore il quale non potrà non chiedersi (ed è anche questo il merito del romanzo) se la Storia che ci hanno raccontato – e che continuano a raccontarci –  corrisponda sempre alla verità dei fatti.

Storia di emarginazione e amicizia

Il Quartiere (non un quartiere, ma il Quartiere) della periferia di Roma (la Roma dei gabbiani che si nutrono dell’immondizia non raccolta, la Roma del mondo di mezzo, delle ingiustizie e delle esclusioni) incastrato tra il Raccordo e l’Aniene è il palcoscenico su cui si muovono i  tre giovani protagonisti.

 Flaviano, Manuel e Abdou  sono legati da un affetto sincero e generoso, ma anche da uno stesso destino. Il destino di chi è escluso e rifiutato: Flaviano è stato abbandonato dalla mamma quando era ancora un bambino; Abdou è partito in avanscoperta ed ha raggiunto l’Italia su un barcone, un ragazzino mandato dal padre rimasto in Costa d’Avorio con le figlie; Manuel di origine egiziana, ma nato in Italia, deve confrontarsi con i genitori  che immaginano un futuro costruito sui loro sogni, incuranti delle sue aspirazioni.

Il Quartiere è il loro mondo, vissuto con sofferenza, subordinati al Reuccio, il boss indiscusso, il cui potere  è alimentato dall’incuria e dalla latitanza delle autorità. A lui gli abitanti del Quartiere si rivolgono per dirimere litigi; a lui chiedono di intervenire per risolvere i piccoli problemi di manutenzione degli stabili: “chi è bravo con l’idraulica aiuta chi è bravo con l’elettricità, che aiuta chi è bravo coi lavori in muratura, che aiuta chi è bravo con l’idraulica”, in un continuo dare e ricevere che toglie spazio alla legalità ed alle  libertà individuali.

Tommaso Giagni ci conduce in questo mondo con la tecnica della carrellata cinematografica, guidata dall’occhio attento di un regista che costruisce immagini  di forte plasticità, usando con abile consapevolezza le parole che (direbbe il poeta) “a lettere di fuoco”  si imprimono nell’immaginazione del lettore , spinto fuori dalla comodità e dalle sicurezza del proprio mondo gentile, costretto a fare i conti con la realtà di un mondo volutamente tenuto al margine, ma che rischia di esplodere. Proprio come accade nel romanzo di Giagni.

A innescare la miccia ci penseranno gli abitanti di un quartiere residenziale Verde Respiro, un agglomerato di villette ispirate a quadri famosi, i cui residenti sono disturbati dalla presenza del Quartiere che ne minaccia l’eleganza e ne svaluta il valore. Tra gli abitanti di Verde Respiro c’è Donatella, giovane anticonformista,  che desidera “capire i meccanismi del mondo” empaticamente vicina al Quartiere e lontana anni luce da Verde Respiro, al punto da divenirne nemica impietosa.