Quando l’infanzia non aveva voce

Narratrice e poetessa, Tove Ditlevsen è la scrittrice danese nota soprattutto per il suo impegno contro i soprusi e le violenze nei confronti dei bambini, oltre che per l’attenzione nei confronti della condizione femminile che in Infanzia assume i colori della confessione.

Primo volume della “Trilogia di Copenaghen” considerata l’evento letterario dell’anno, la trilogia è stata salutata come un capolavoro che si unisce al coro di voci femminili che, da diversi Paesi, hanno raccontato e denunciato la loro condizione.

Tove vive la propria Infanzia in un piccolo bilocale di Vesterbro,  quartiere operaio di Copenaghen, tra mille problemi causati, in particolare, dalle difficoltà economiche che la famiglia deve affrontare: il padre è  spesso senza lavoro a causa della propria militanza comunista. È lui che spinge Tove alla lettura, ma, quando la bambina gli confesserà  il sogno di diventare poetessa,  le dice, senza mezzi termini, che non è un lavoro da donne. Nonostante ciò, Tove continuerà a scrivere segretamente poesie su un quadernetto che nasconderà gelosamente per non essere derisa.

La sua formazione è affidata alla madre, rancorosa e distratta, incapace di accoglierla e comprenderla causa di una profonda sofferenza che la accompagnerà sempre:

Il mio rapporto con lei è stretto, doloroso, traballante,

e se voglio un segno d’affetto devo cercarlo io.

Qualunque cosa io faccia, la faccio per compiacere lei,

per farla sorridere, acquietare la sua rabbia.

A ciò bisogna aggiungere la difficoltà di comprendere il mondo degli adulti dai quali giungono mezze frasi e rivelazioni che Tove non riesce a decodificare: due mondi, quello di adulti e bambini nella prima metà del Novecento, che non riescono a incontrarsi, a causa di segreti che la bambina non comprende. Ci penserà la sua  amica  Ruth, bambina senza regole e spregiudicata, alla quale si accosta per il suo bisogno di essere accolta e considerata, a svelarle il mondo degli adulti. Tove, però, avverte una profonda distanza da Ruth, scavata ulteriormente dal tentativo di agire in maniera spregiudicata e libera come l’amica, ma condannandosi al fallimento  per la paura e l’insicurezza che le sono compagne.  

Con linguaggio semplice ed immediato, Tove Ditlevsen ci guida nel proprio mondo, dove:

“L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli”.

L’infanzia di Tove Ditlevsen si presenta come una condanna a cui “non si sfugge” perché “resta attaccata addosso come un odore”.

E’, di fatto, un’infanzia dolorosa, dalla quale osservare

“di nascosto gli adulti, la cui infanzia è seppellita in loro,

lacera e sforacchiata come un tappeto consunto e tarmato,

al quale nessuno pensa, e che non serve più.

A guardarli non si direbbe che ne abbiano avuta una”.